diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 4 - 2005

Filosofe

Edith Stein e Roman Ingarden. Quattordici lettere

“C’è qualcosa vicino a noi, ma così vicino

che non ci può sfuggire”

Edith Stein

 

“Bisogna che quel che è in basso vada verso il basso, perché quel che è alto possa andare in alto. Siamo alla rovescia. Nasciamo così.

Ristabilire l’ordine, vuol dire disfare in noi la creatura”

Simone Weil

 

 

Le quattordici lettere di Edith Stein all’amico e filosofo polacco Roman Ingarden, selezionate e ora disponibili anche in traduzione italiana (1), consentono una accurata ricognizione di quel teso e complesso humus esistenziale e culturale entro il quale operò la pensatrice, allieva e poi assistente di Edmund Husserl e trucidata nel 1942 nel lager nazista di Auschwitz-Birchenau. L’epistolario selezionato, facente parte di un più ampio corpus, copre un arco temporale dal febbraio 1917 all’estate del 1937, ma va detto preliminarmente che la maggior parte delle lettere – tredici – sono scritte nel periodo dal 1917 al 1925, mentre l’ultima, più tarda, risale al periodo in cui la Stein era già entrata nel monastero del Carmelo a Colonia. Dal reticolo delle lettere emerge una fitta tramatura di relazioni, contatti, nomi e situazioni che fecero da sfondo a quella avventura spirituale, unica e solitaria, fatta di aspirazioni e sconfitte, speranze e cadute, cui Edith Stein fu diretta protagonista.

Uno dei temi più rilevanti della seppur breve raccolta epistolare, è quello del rapporto con Husserl, il “Maestro”, e del ritratto complesso e controverso che la Stein ne disegna. Nel finale della lettera del 9/2/1917 la giovane assistente fa cenno all’interessamento di Husserl per averla a Friburgo anche durante le vacanze, “temendo di non saper come cavarsela senza di me durante l’estate”(2). Husserl affidò infatti alla sua collaboratrice la revisione dei propri manoscritti  che sarebbero confluiti nel secondo volume di Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, estenuante impresa alla quale la Stein si dedicò con grande dispendio di energie. Della pesantezza di questo lavoro, al quale non sapeva né voleva sottrarsi, la Stein parla ad Ingarden con accenti preoccupati e tesi, come di chi sa di dover svolgere un lavoro oscuro ma indispensabile: “l’attività di assistente mi occupa talmente che non è possibile dedicarmi ad un lavoro supplementare intenso e indisturbato – tuttavia non riesco a pensare di rinunciarvi per il futuro; infatti sono quasi certa che il Maestro da solo non  pubblicherebbe più niente …”(3). E tuttavia Edith ha in questo momento la sensazione di non avere più in mano la propria vita come in passato. Richiede uno spazio, una autonomia per pensare ed elaborare una sua opera filosofica. Pur sentendosi in sintonia con il Maestro sulle linee di fondo della filosofia fenomenologica, sente l’assillo di una personalità forte e di una presenza ingombrante. Nella lettera del 19/2/1918 questo nodo riemerge. Husserl aveva da poco “fatto omaggio” ad Edith di una lunga serie di note sulle modalità di approccio e trattamento dei suoi manoscritti. Le righe registrano un primo seppur contenuto accenno di insofferenza, quasi un moto di distacco, comunicato all’amico. All’approccio metodologico richiesto da Husserl, la Stein non si sentiva particolarmente portata e pare che in merito abbia fatto al Maestro delle cortesi osservazioni. Ma comunque è l’urgenza di uno spazio proprio di pensiero e di ricerca ciò che la assilla: “Potrei accettare di occuparmene (scilicet: dei manoscritti) solo se potessi fare contemporaneamente anche un po’ di lavoro indipendente”(4). In fondo è, fenomenologicamente, proprio un problema di vera e autentica intersoggettività quello la Stein pone, un relazionarsi da soggetto a soggetto, in una empatia (5), sempre cercata e auspicata ma sempre anche sfuggente. Il venir meno, la caduta del telos dell’empatia genera la sofferenza e,  alla fine, la subordinazione: “In fondo è il pensiero di essere a disposizione di qualcuno che non riesco a sopportare. Sono capace di mettermi al servizio di una cosa e per amore di una persona so fare di tutto, ma essere a disposizione di una persona, in breve ubbidire, questo non so farlo”(6). La tensione con il Maestro sembra sul punto di precipitare in una rottura, in un divorzio profondo: “ … se Husserl non si abitua a considerarmi come una collaboratrice, come del resto ho sempre inteso i nostri rapporti – e anche lui in teoria – dovremo purtroppo separarci”(7).  Ma il punto di divergenza con Husserl che nel 1917 giunge a maturazione, senza tuttavia mai corrompere la stima di lei verso il Maestro  né  arrivando mai a spezzare la relazione tra i due, comprende ovviamente motivi filosofici e speculativi che si intrecciano indissolubilmente a quelli relazionali e di collaborazione.  A questi motivi profondi fa cenno lo stesso Husserl: “Nessuno mi segue dopo il grande capovolgimento della mia filosofia, dopo la mia svolta interiore (…) Anche Edith Stein mi ha seguito solo fino al 1917 …”(8). A ciò chiaramente allude Hanna-Barbara Gerl, una delle più attente e acute studiose della figura di Edith Stein, individuando il nodo teorico nel passaggio da parte della Stein ad una fenomenologia ontologica in luogo della fenomenologia trascendentale di Husserl. Tuttavia di questo crinale filosofico nelle lettere a Ingarden in esame, non si rintraccia alcun specifico segno. Per quanto possa valere, si ricava che la Stein frequentava la casa di Husserl e che in una di tali occasioni,(cfr. lettera dell’8 giugno 1918) incontrò Martin Heidegger, il “piccolo Heidegger”(9), che successivamente abbandonò il maestro imprimendo alla sua ricerca un’altra direzione in chiave esistenzialista. Il passo di distanziamento da Husserl da parte della Stein è tuttavia più lento di quanto sarà quello di Heidegger. Ancora nel 1919, come documentato dalla lettera dell’11 novembre, la Stein scrive ad Ingarden del “volume commemorativo”(10) per il sessantesimo compleanno di Husserl, a cui essa stessa partecipò con il suo saggio Causalità psichica (11), invitando caldamente l’amico a collaborarvi con uno scritto.

 

La vicenda del volume commemorativo si intreccia alla controversa questione dell’abilitazione di filosofia che la Stein inseguiva e che non riuscì ad ottenere da Husserl. Nella lettera a Ingarden del 16 dicembre 1919, il problema è toccato nella parte terminale dello scritto, quando la Stein fa capire che alcuni dei saggi scritti per il volume commemorativo potrebbero servire come lavoro per l’abilitazione. Ma Husserl ha negato a limine che si possa ottenerla a Friburgo”(12). Anche a Gottinga, dove la Stein inoltrò un proprio testo per l’abilitazione, il lavoro “è stato respinto senza essere stato esaminato”(13). Altri tentativi furono inoltrati, senza esito favorevole, a Kiel e ad Amburgo, ove insegnavano Paul Stern ed Ernst Cassirer, entrambi di orgine ebrea, presso i quali, in epoca di nascente antisemitismo, la Stein non si sentì di insistere eccessivamente. Non volendo richiederla a Husserl, la Stein pare rassegnarsi a rinunciare all’abilitazione di filosofia; un segno netto in questa direzione si può rintracciarlo nella breve lettera del 15 marzo 1920, scritta da Breslavia, ove comunica all’amico il proprio presentimento, (“La mia abilitazione a Kiel non si farà, nemmeno a Gottinga. Io mi vado abituando al pensiero di rimanere per sempre a Breslavia”(14) ), unito alla tenace volontà – nonostante il fallimento – di raccogliere presso di sé “un’accademia privata”(15) e quindi di dare avvio ad un suo magistero filosofico. Riscontriamo più estesamente ed esplicitamente questo riferimento nella lettera del 30 aprile 1920, allorchè la Stein  annuncia a Ingarden di aver dato inizio nella propria casa ad un ciclo di “lezioni su basi fenomenologiche di introduzione alla filosofia”(16), con più di trenta partecipanti, e di voler costituire un gruppo stabile. La rinuncia a raggiungere l’abilitazione viene ulteriormente ribadita: “sono essenzialmente stufa dei tentativi per l’abilitazione. Nel farli si perde molto tempo, che forse può essere meglio utilizzato”(17). Sappiamo invece (lettera del 9 settembre 1920) che Edith opererà per aiutare l’amico Hans Lipps negli studi per il conseguimento dell’abilitazione. Lipps presentava un lavoro imperniato sui fondamenti della matematica.  Scrive a tal proposito, non senza una sottile ironia, alludendo ai suoi personali fallimenti in proposito, che “la direzione strategica è completamente in mia mano, e il piano è congegnato in modo tale che la gente cattiva da cui sono stata trattata male, rimanga possibilmente esclusa”(18). L’aiuto consisteva soprattutto nell’acquisire il parere favorevole di Richard Courant, cugino della Stein e professore di matematica a Gottinga.

 

Anche nella lettera del 6 dicembre 1920 la Stein ritorna sul problema dell’abilitazione ma occupandosi, in questo caso, di quella cui aspirava Ingarden che si era laureato con Husserl a Friburgo; ferita e colpita dalla propria infelice esperienza, la Stein scoraggia l’amico senza mezzi termini, non rinunciando a metterlo in guardia da eccessive illusioni: “se questa abilitazione dipende dalla presentazione dei lavori, può lasciare subito la scuola e appenderla a un chiodo. Auguro di cuore che questo succeda presto, poiché ciò che significa scuola, lo sperimento sulla mia propria pelle” (19). Ma la missiva contiene anche altri spunti interessanti. Uno di questi riguarda la notizia di voler dedicare più tempo ed energie – pur continuando nell’attività di magistero filosofico di cui si è detto – alla preparazione del “lavoro sullo Stato”(20) che comparirà nel 1925 sulle pagine dello Jahrbuch, la rivista fondata da Husserl, con il titolo Una ricerca sullo Stato, un’ampia ricerca su basi fenomenologiche sulle strutture fondamentali dello Stato ricondotte alle loro radici comunitarie. Verso i temi dello Stato e della sua organizzazione formale, la Stein manifesta già attenzione anche nel passaggio di una lettera a Ingarden del 9 febbraio 1917, allorchè ne parla in relazione alla nozione di “popolo”. Stabilito che i popoli sono persone dotate di vita, chiamate a nascere, crescere e scomparire non diversamente dalla formazione cellulare, con in più, rispetto alla cellula, l’istanza della coscienza della propria relazione con il tutto a cui appartengono, la Stein individua nella organizzazione statuale che un popolo sa darsi, “un segno di forza interiore” (21): un popolo tanto più progredisce quanto più “è maggiormente Stato” (22). Dalle lettere in questione apprendiamo tra l’altro che l’interesse per la sfera storico-politica non restò nella Stein solo limitata all’indagine teorica e speculativa, anteriormente vi fu un periodo, in verità alquanto breve, in cui Edith cercò un impegno più diretto e coinvolgente, sul piano dell’intervento pratico. Se ne fa cenno nella lettera del 30 novembre 1918 quando Edith annuncia a Ingarden di aver aderito al Partito Democratico, Tedesco, nel quale svolse incarichi non secondari, tra cui quello, per così dire pedagogico di “fornire le informazioni necessarie allo scopo di persuadere le donne a prender parte alle elezioni”(23). Ma già nella lettera del 27 dicembre 1918, desolatamente ma anche lucidamente, dichiara. “Della politica ne ho abbastanza sino alla nausea, e sono del tutto priva degli arnesi del mestiere: una coscienza salda e una pelle dura”(24).

Tornando alla lettera sopra menzionata del 6 dicembre 1920, in essa troviamo un illuminante accenno al già citato Hans Lipps, persona con la quale la Stein intrattenne un complesso sodalizio intellettuale e affettivo. Nella lettera Edith annuncia a Ingarden il desiderio di trascorrere le imminenti vacanze natalizie in compagnia di Lipps a Dresda. Già sapevamo (lettera del 9 settembre 1920) che la Stein stava operando per aiutare l’amico al conseguimento della abilitazione (25) e che ancora lo assisteva leggendo le carte che Lipps periodicamente le inviava. E’ questa con Lipps la seconda relazione spirituale e affettiva, non intimamente corrisposta, dopo quella con Roman Ingarden, che attraversò la vita e l’anima della Stein prima della definitiva scelta monacale. Dice su ciò, in un’ampia testimonianza, Hedwig Conrad-Martius che fu amica di Edith e ne raccolse le profonde tensioni: “Amava Hans Lipps, il fenomenologo appartenente alla nostra cerchia, che più tardi fu professore ordinario a Francoforte e che è morto come medico davanti a Pietroburgo. Sono anche certa  che l’avrebbe sposato se egli l’avesse voluto. Ma egli non lo volle. Quando ciò fu certo in modo assoluto, ebbi con lei un colloquio relativamente  alla foto che, unica, si trovava ancora sulla piccola scrivania della nostra casa di Bergzabern. Le dissi che non era conveniente volersi dedicare ed affidare completamente a Dio e, al tempo stesso, avere sul tavolo, (forse ho detto anche sul cuore, non so più bene), l’immagine di un uomo che non la voleva sposare”(26). Edith rimase turbata e successivamente rimosse quella foto dal tavolo. La Conrad-Martius, proseguendo nella sua testimonianza, allarga la riflessione sul peso che tale dolorosa rinuncia possa aver avuto nella scelta radicale compiuta da Edith. Ecco la sua tesi, nella quale troviamo soppesato l’elemento biografico, singolare e sostanzialmente irriducibile, sull’ardua bilancia ove tutti gli eventi vengono convocati e misurati per quanto ognuno di essi possa influire sugli altri, in una catena e successione a non deterministica, eppur tuttavia reale: “… credo fermamente che questa profonda delusione di vita abbia contribuito non poco alla sua conversione e al suo battesimo, anzi alla scelta di vita claustrale. Sono ben lungi dal pensare che tale delusione sia stata il motivo di validità totale della sua conversione, come cinicamente crede la gente. Ma è pur vero che la grazia divina si serve di queste cose per trarre a sé persone che sono chiamate” (27). Infatti allorchè nel 1925 Lipps, rimasto nel frattempo vedovo, si ripresentò ad Edith chiedendole di sposarlo, la scelta definitiva era avvenuta e la chiamata estrema compiuta: “Ora è troppo tardi, poiché un Altro ha posto la sua mano su di me per sempre”(28).

Tornando tuttavia alla relazione epistolare con Ingarden, nel 1920 si era  da tempo consumata tra i due la rottura affettiva, probabilmente già a partire dalla primavera del 1917, o meglio quella “scissione del sentimento”(29) che fece sopravvivere il rapporto sul piano intellettuale, una volta vanificatosi l’elemento passionale, per la  mancata corresponsione da parte di lui e  il suo successivo matrimonio. Dopo questa svolta le lettere tradiscono, anche sul piano letterario, un tono di sottile ma costante imbarazzo, uno stato di velamento attraverso il quale la voce della filosofia copre, anestetizzandolo, il richiamo del cuore. Non senza talvolta una punta di composto ma crudo dolore o insinuante risentimento, come in questo luogo epistolare del 6 dicembre 1920: “Non pretendo che per me Lei porti suo figlio da un fotografo … non mi ha detto ancora come si chiama il giovane. Quel  che dice della bellezza di lui, non m’interessa affatto. Sicuramente Lei non ha in quel campo alcuna competenza” (30). Tuttavia il rapporto continua sul piano umano e intellettuale, con sfumature di toni e di accenti, pur nelle mutate condizioni determinate dalla storia personale dei protagonisti. Illuminante può essere la lettera del 13 dicembre 1925, per la sottile tensione che tutta la percorre. L’apertura del testo epistolare fa intravedere l’esistenza di un fraintendimento, di una incomprensione costituitasi tra i due interlocutori. La Stein, riferendosi ad una precedente lettera, comunica all’amico di non aver avuto l’intenzione di offenderlo e urtarlo; tuttavia cerca un chiarimento “allo scopo di  riportare nuovamente su una giusta base  l’intero nostro rapporto “(31). Qualche riga sotto si percepisce che il contrasto in questione deve essere stato di rilevante entità, toccando corde sensibilissime dell’animo della pensatrice. Qualche anno prima, nel 1922, essa aveva  ricevuto il battesimo, aderendo così al cristianesimo. Ma già nel 1918 scrive all’amico, delineando i contorni della sua pulsione verso un cristianesimo positivo, e parlando di una rinascita dalla condizione di distruzione in cui versava.(32), come quando ci accingiamo ad una vera e propria rifondazione.   Ad Ingarden viene riferito un diverso “punto di vista” sulla scelta compiuta dalla Stein e, ciò che maggiormente la colpisce e infastidisce, una “certa animosità” (33) affiorante dalle sue lettere.    Ingarden, pur essendo cattolico, era fortemente critico verso il cattolicesimo e non aveva perso occasione di esternare talvolta veementemente le sue posizioni nelle lettere all’amica. La Stein parla in questa lettera di un cristianesimo che “riguarda anche la vita e il cuore” (34), presenza totalizzante e viva che non può essere ricondotta a mera disputa dottrinaria. Pur non essendo essenzialmente il cristianesimo una religione del sentimento, la Stein rivendica di fronte all’amico l’autentica pienezza del suo nuovo sentire e la sorgente anche emotiva della sua spiritualità: “… se Cristo è il centro della mia vita e la Chiesa di Cristo è la mia patria, come non capire quanto sia per me difficile scrivere delle lettere, nelle quali debbo stare accuratamente attenta a non lasciar trasparire alcuna cosa che mi riempie il cuore, a non provocare scandalo e a non suscitare sentimenti ostili verso ciò che per me è caro e sacro” (35). Ma al di là dell’animosa querelle, l’amicizia con Ingarden resta per Edith  “una cosa preziosa”(36), anche se tale status sembra più rivolto alle condizioni del legame nel passato. Di quel passato sembrano qui riemergere  e riaffiorare alcune ombre che avevano contribuito a determinare in lei una profonda prostrazione e sofferenza. Edith scrive di “stato miserevole in cui ero” e di “inesprimibile smarrimento”(37). Ci si riferisce a due episodi essenziali nell’esistenza della Stein, accaduti entrambi a Friburgo nel 1918: l’abbandono doloroso ma inevitabile dell’assistentato di Husserl e la rottura del legame sentimentale con il già citato filosofo Hans Lipps, rapporto che – come sappiamo – andò logorandosi e deteriorandosi e che tuttavia ancora nel 1920 non le impediva di assisterlo nell’elaborazione dei testi per l’abilitazione. Il superamento di quelle ombre che tanto l’avevano fatta soffrire sembra già in atto, nella già ricordata missiva del 13 dicembre 1925, nella forma di un rasserenamento, primo indizio di quel cammino iniziatico che la condurrà nel 1933 nel Carmelo di Colonia.  Nelle parole indirizzate all’amico, Edith Stein fa cenno come ad uno scampato pericolo, ad un rischio estremo del quale ha conosciuto e abitato la soglia, fino a trovarsi ora finalmente “in una stanza calda e piena di luce, dove (uno, n.d.r.) si sente al sicuro, è circondato tutt’intorno da amore, cure e mani caritatevoli. Improvvisamente gli si para dinanzi all’anima l’immagine del sepolcro fatto di onde gelide e tenebrose”(38).

I rapporti con Ingarden restano comunque aperti, pur nelle mutate condizioni affettive e spirituali di cui si è detto, tuttavia tra le lettere selezionate, l’ultima – recante il riferimento cronologico estate 1937 – registra un netto cambiamento di prospettiva e anche di articolazione dialogica, assumendo talora il tono di una secca replica e puntualizzazione. La lettera è scritta da Colonia dove, nell’ottobre del 1933, la Stein si era ritirata nel convento del Carmelo, assumendo dall’anno successivo il nome di Teresia Benedicta a Cruce. Limpida e determinata appare nella Stein l’affermazione della propria nuova identità spirituale e morale maturata con l’ingresso nell’Ordine, davanti all’amico che non ha condiviso quell’atto estremo: “Non pensavo che Lei si sarebbe seccato con me per il mio ingresso nell’Ordine, né avrei mai creduto che Lei avesse reagito in maniera così assurda e insolita a quella che è stata una mia personale e irrevocabile decisione”(39). E poi, di seguito, la dichiarazione ‘chiave’ di questa lettera nella quale il movimento ormai in atto di piena adesione e integrazione nella comunità, fa assumere ad Edith l’uso del noi, come ad indicare una cancellazione del sé, un compiuto oblio della propria molecolare e umile singolarità di fronte alla grandezza dell’eterno e dell’assoluto: “Noi crediamo  che a Dio piaccia scegliersi un gruppetto di persone che vivono partecipando più intimamente alla sua vita, ed io sono felice di essere tra queste. Noi non sappiamo per quale ragione venga fatta una tale scelta. Certamente non a motivo di meriti e pregi, per cui la grazia della vocazione non ci riempie di orgoglio, ma ci rende piccole e piene di gratitudine”(40 ). Di fronte all’insondabile e all’inspiegabile, “il nostro compito è quello di amare e servire Dio” (41), in una rinuncia al mondo che in ultima analisi è ritrovare e amare il mondo più profondamente, rinsaldarne i legami ma non in superficie, “… poiché Dio non abbandona mai il mondo da lui creato e ama particolarmente gli uomini, è per noi naturalmente impossibile disprezzare il mondo e gli uomini” (42), riannodando continuamente i nessi “con ciò che si trova al di là delle mura del nostro monastero”(43).

Il tono della lettera non pare pertanto meramente difensivo davanti alle perplessità dell’amico ma fortemente affermativo, come di chi ha compiuto una scelta radicale nella quale si è posto totalmente e definitivamente in gioco: “Per noi non c’è in fondo alcuna differenza fra sbucciare le patate, pulire i vetri o scrivere dei libri”(42). In tal senso confida all’amico di aver preparato per la stampa un “voluminoso abbozzo”(44) – Essere finito e essere eterno – rielaborazione dell’opera  Potenza e Atto, scritta prima dell’ingresso in convento e di essere pronta a collaborare con lui sul piano intellettuale, richiedendo l’invio da parte di Ingarden del suo lavoro La costruzione formale dell’oggetto, “ma solo se non le reca alcun disturbo”(45). L’ultimo tocco di questa lettera, triste e serena ad un tempo, segno d’una pacatezza d’animo faticosamente ma compiutamente conquistata, è per la madre morta e che non più rivide dopo l’entrata in convento. Il congedo è un affettuoso ma determinato invito ad Ingarden a chiamarla e interpellarla d’ora in poi con il nome di Sorella Benedetta, riconoscendo in tal modo il suo radicale transito ad altro.

 

Note