diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 7 - 2008

Differenza maschile

Differenza maschile, differenza sessuale

“Cos’è un uomo?”: domanda ricorrente, forse centrale, nel discorso dell’antropologia, e in generale delle scienze umane. Sennonché, essa nasconde un equivoco linguistico che vizia ab origine quel discorso: perché il termine uomo non designa solamente l’esemplare neutro e universale dell’umanità, ma anche il rappresentante sessuato di un genere, quello maschile, che è semplice parzialità all’interno della specie umana. Alcuni vocabolari conservano lo scarto tra i due significati: in greco antico, anthropos è l’essere umano generico, mentre anér indica il maschio in opposizione a gyné, la donna, la femmina; allo stesso modo, il latino distingue tra homo e vir, e il tedesco tra mensch e mann. Ma nella grande maggioranza delle lingue moderne, il secondo significato tende ad essere messo da parte o assimilato al primo: l’uomo è prima di tutto l’Uomo. Non è un caso: il punto è che il maschile si è imposto come cifra e norma dell’umanità, pensandosi come universale e astratto. Ciò ovviamente ha comportato per gli uomini diversi vantaggi in termini di supremazia e potere: la storia del (morente?) ordine patriarcale può essere letta come la storia di una singolarità che si è fatta legge (supposta) valida per tutti, donne comprese. Tuttavia, questo movimento dal particolare all’universale richiedeva un sacrificio originario: per poter aspirare ad essere l’Uomo, l’uomo doveva prima rimuovere la propria peculiare differenza, il proprio corpo, le tracce evidenti del proprio genere. Ma in questa maniera il pensiero tradizionale sull’uomo (o meglio sull’Uomo), considerato come criterio di misura dell’umanità intera, ha escluso di fatto dalle sue analisi ciò che apparteneva strettamente agli uomini in quanto tali, cioè in quanto soggetti sessuati. Ciò ha fatto sì che il maschile venisse avvolto da una sorta di invisibilità: e se questo da un lato ha contribuito alla sua identificazione con l’umano, dall’altro lo ha sottratto (almeno fino ad oggi) ad un’esplicita messa a tema.

Di conseguenza, a seconda del livello a cui ci poniamo, e seguendo l’uno o l’altro corno di quella duplicità semantica cui accennavo, possiamo considerare il problema come molto antico o al contrario come piuttosto recente. Antico: perché esso, almeno nella sua veste di domanda sull’Uomo, è sempre stato al centro dalla stragrande maggioranza dei discorsi e dei racconti culturali, scientifici e filosofici che si sono venuti a intrecciare in una storia ormai millenaria. E tuttavia, a ben vedere, quell’iniziale maiuscola cela al contempo un invisibile interrogarsi sulla maschilità, sull’uomo con la minuscola: pur con estrema cautela critica e con i necessari distinguo storici e filologici, possiamo leggerne la traccia nascosta tanto nelle prime produzioni culturali dell’Occidente greco quanto nei testi della rivoluzione scientifica del diciassettesimo secolo, fino ad arrivare alle contemporanee narrazioni pubblicitarie del mercato globale. Tanto più che i soggetti legittimati a narrare sono stati, almeno fino a poco tempo fa, quasi esclusivamente gli uomini. Eppure, dicevo, si tratta di una questione recente: perché, se è vero che la domanda sull’uomo ha attraversato in maniera sotterranea tutta la tradizione occidentale ricevendo le più svariate risposte, solo da trenta o quaranta anni essa ha raggiunto una certa luce e visibilità. In altre parole, è unicamente con la fine degli anni Sessanta che, nell’ambito delle vivaci lotte sociali e politiche di quell’intenso periodo, e proseguendo sulla strada maestra aperta dal femminismo e dal movimento di liberazione omosessuale, alcuni (pochi) uomini hanno cominciato a interrogarsi esplicitamente su loro stessi in quanto uomini e sulla loro identità di genere. In precedenza, gli uomini avevano narrato numerose storie che prendevano ad oggetto le donne, ma se ne erano tirati fuori come uomini: erano stati autori e non personaggi di quelle storie, godendo così della posizione di potere che ne derivava. Ora invece, quello che era rimasto così a lungo un problema invisibile veniva finalmente messo in gioco e sottratto all’oscurità dell’implicito: si creavano così i presupposti e gli spazi di discussione per un possibile pensiero della differenza maschile.

Non che mancassero degli antecedenti: lungi dall’essere un luogo neutrale, il discorso sulla maschilità (come d’altronde ogni altra produzione di sapere) è sempre stato un campo in cui si sono dati battaglia sistemi di conoscenza rivali e differenti logiche di potere. Limitandoci al solo ventesimo secolo, ed escludendo quindi le per altro notevolissime e tuttora influenti narrazioni dei secoli precedenti[1], possiamo identificare un certo numero di progetti per la costruzione di una conoscenza del maschile: dalla psicoanalisi (freudiana e post-freudiana) all’antropologia, dalla sociologia alla ricerca storica (con l’attuale sviluppo della storia di genere)[2]. Il fatto però è che molte delle più interessanti interpretazioni su genere e relazioni tra i sessi si sono venute formando nel vivo delle pratiche di lotta sociale e politica che dalla fine degli anni Sessanta hanno segnato un netto discrimine rispetto al vecchio mondo patriarcale: quegli anni videro la presa di coscienza e di parola delle donne contro il potere che gli uomini esercitavano su di loro da secoli e che le aveva ridotte così a lungo al silenzio. Reclamando la liberazione della donna in quanto donna, le militanti femministe cominciarono ad illuminare i meccanismi del potere e dell’oppressione maschile, a contestare l’ideologia patriarcale che le relegava nel privato e la distinzione stessa tra sfera pubblica e privata, a smascherare la pretesa neutralità delle narrazioni liberali sull’individuo possidente e la falsa universalità dei discorsi filosofici degli uomini che pretendevano di parlare per ambo i sessi, rifiutando la logica del soggetto unico ma senza accettare di farsi esse stesse soggetto alla pari. Il femminismo venne dunque profilandosi come linea critica in un duplice senso: se da una parte sottoponeva ad un attacco radicale teorie e prassi inveterate e avvertite ormai come naturali, esso al contempo ne segnalava anche la crisi, il punto di rottura.

A questa crisi, gli uomini risposero in diversi modi. Alcuni, sentendosi minacciati dalla sfida femminista, reagirono schierandosi a difesa dell’ortodossia tradizionalista, in un disperato tentativo di conservazione dell’ordine patriarcale e fratriarcale che passava anche per l’esercizio della violenza contro donne ed omosessuali. Altri, avvertendo un forte senso di colpa per la propria storia secolare di oppressori, assunsero atteggiamenti ausiliari rispetto al movimento delle donne o tentarono di abbandonare l’idea stessa di mascolinità giudicandola ormai irrimediabilmente compromessa, come se questa operazione potesse essere il frutto di un semplice atto di volontà. Ma la reazione forse più significativa fu la nascita di un movimento di uomini che cominciò ad interrogarsi sulla propria appartenenza di genere e a cercare i modi di distaccarsi dal sessismo implicito nell’ideale dominante di maschilità, prendendo a prestito materiali e metodi elaborati dal femminismo e dalla politica di liberazione omosessuale (affermatasi in quegli stessi anni). Già nel 1970 venne fondato a Berkeley il primo Men’s Center, seguito a distanza ravvicinata dalla nascita di diversi gruppi maschili di autocoscienza nel continente europeo, Italia compresa. Sempre negli Stati Uniti si assiste allo sforzo più duraturo di organizzazione anti-sessista: si tratta della National Organization for Man Against Sexism (NOMAS), fondata agli inizi degli anni Ottanta col nome di National Organization for Changing Men e schierata a sostegno delle rivendicazioni femministe. In questo contesto nacquero anche le prime riviste che ospitavano dibattiti teorici e pratici sul tema della mascolinità: verso la fine degli anni Settanta Achilles Heel veniva pubblicata in Gran Bretagna, mentre gli anni Novanta vedevano la creazione in Australia del giornale nazionale XY: Men, Sex, Politics e negli Stati Uniti le prime uscite di Masculinities, attorno a cui fiorirono le analisi di quelli che saranno poi chiamati Men’s studies, sul calco dei più noti Women’s studies. Si tratta di un campo accademico di ricerca interdisciplinare tuttora attivo in area anglosassone e derivato dall’esperienza conoscitiva degli studi delle donne, dedicato ai temi del genere, della politica sessuale e in particolare della mascolinità, trattati secondo un approccio analitico. Negli ultimi anni si sono moltiplicati nelle università, americane ma non solo, i corsi incentrati su questo tipo di indagini. Il termine “maschilità” comincia ormai ad essere declinato al plurale.

Tuttavia, pur avendo il merito di aver posto esplicitamente a tema l’uomo come parzialità dell’umano, i Men’s studies si limitano generalmente ad un orientamento sociologico o antropologico, lasciando invece inesplorate le implicazioni più prettamente filosofiche della questione. Soprattutto, si avverte la mancanza di un dialogo serrato con le autrici italiane e francesi del pensiero della differenza sessuale, troppo spesso assimilate alle posizioni essenzialiste: ricucire questo strappo, colmare questo vuoto di parola diventa allora un compito necessario per cominciare ad abbozzare un nuovo pensiero della differenza maschile. Inoltre, altri scambi, altre contaminazioni sono ancora da esplorare: in effetti, non si può non ricordare come, accanto a questa tematizzazione esplicita della maschilità, altri uomini si siano interrogati sulle possibilità di un recupero teorico e pratico dell’idea di alterità. Da Deleuze a Derrida, da Foucault a Lévinas, per strade diverse, la differenza (la différance derridiana) si fa principio sovversivo e destabilizzante, simbolo della negazione di qualsiasi centralizzazione e unità e risorsa teorica in grado di segnalare e agire la crisi dei modelli tradizionali di soggettività, razionalità, potere. Il problema però è che questa differenza non è differenza sessuale, meno che mai maschile: il discorso post-strutturalista è un discorso de-sessualizzato. Quel che abbiamo in realtà è una metaforizzazione dell’altro, in particolare dell’altro sessuato[3]. In tal senso, far interagire questa linea di tendenza della filosofia contemporanea con un’esplicita messa a tema della differenza sessuale maschile può rivelarsi movimento in grado di aprire prospettive feconde in entrambe le direzioni: perché, se da un lato può aiutare la pratica filosofica ad evitare il pericolo di ricaduta nel paradigma mortifero del neutro, dall’altro può offrire alla riflessione degli uomini sugli uomini un respiro teorico più ampio in estensione e profondità.

Di seguito vorrei allora prendere brevemente in considerazione, senza pretesa di esaustività, alcuni punti ineludibili per l’impostazione di un pensiero della differenza maschile, mettendo in relazione dialettica le posizioni emerse in merito nell’ambito dei Men’s studies con l’orizzonte concettuale e gli strumenti interpretativi che le filosofe femministe (soprattutto italiane e francesi) sono venute elaborando nel corso della loro produzione pratica e teorica.

 

Uomini e identità di genere

 

Cosa vuol dire essere uomo? Cosa dobbiamo intendere quando parliamo di sesso e genere, di differenza sessuale, di femminile e, nel nostro caso, di maschile? Dare un contenuto a queste espressioni è un compito preliminare per intavolare ogni successiva discussione. La linea interpretativa prescelta infatti si riflette sulle teorie e sulle pratiche di relazione tra i sessi che decideremo di sviluppare, contribuendo a diversificarle in modo talvolta radicale. Considerate inoltre non solo le esplosive potenzialità epistemologiche che il genere ha dimostrato nei vari campi del sapere, ma soprattutto le possibilità che un suo ripensamento può offrire nella prospettiva di una messa in discussione dell’ordine simbolico fallogocentrico, intraprendere una riflessione in questa direzione acquista un significato eminentemente politico. Certo, è fondamentale tenere conto della sostanziale asimmetria che nel compito dell’elaborazione della propria appartenenza al genere divide il femminile dal maschile; infatti, se per le donne si tratta di riempire il vuoto che corrisponde alla loro secolare assenza dalla scena storico-simbolica, noi uomini ci troviamo invece a partire da un tutto pieno: il tutto di senso, di linguaggio, di valore con cui ci siamo tradizionalmente identificati. Rompere questa identificazione, fare un passo indietro rispetto alla totalità, vuol dire cominciare a pensarci come semplice parzialità dell’umano, rinunciando all’astrattezza normativa che abbiamo indebitamente attribuito al maschile, per riscoprirne però la concretezza sessuata: significa decostruire l’Uomo per lasciar apparire l’uomo.

Ora, all’interno delle riflessioni e delle pratiche degli uomini in area anglosassone, e tranne alcune eccezioni, il dibattito sembra ricalcare in maniera piuttosto pedissequa la tradizionale (e forse ormai superata) divisione tra sex e gender, tra essenzialismo e costruttivismo. Sul primo versante si situa ad esempio il progetto curioso, ma per certi versi emblematico, di Robert Bly e discepoli, i quali hanno acquisito un discreto seguito negli Stati Uniti propugnando la riscoperta di un presunto Uomo Primigenio celato in ogni maschio umano[4]. Basato su concetti della vulgata junghiana e pratiche bizzarre che sembrano l’imitazione farsesca del separatismo femminista (raduni nei boschi, tamburi, vita selvaggia), il cosiddetto “movimento dell’uomo mitopoietico” nasconde presupposti essenzialisti: se dobbiamo riscoprirlo, questa sorta di “eterno mascolino” deve pur esistere. Su un piano diverso, ma non meno teoreticamente grossolano, si pone il discorso della sociobiologia, fondata negli anni Settanta da Edward Wilson con lo scopo di studiare i fondamenti biologici dei comportamenti sociali[5]. Essa ha il (dubbio) merito di definire meglio il contenuto delle tesi essenzialiste, radicando il bagaglio di caratteristiche proprio di ciascun genere direttamente nell’eredità genetica e nel circuito neuronale e spiegando i diversi atteggiamenti degli uomini in termini di evoluzione e adattamento. Così, l’aggressività, la competitività, la propensione alla guerra, tratti stereotipati solitamente associati alla mascolinità, sarebbero causati deterministicamente da un alto livello di testosterone o da una specifica strategia riproduttiva: non serve sottolineare come questa mossa nasconda un tentativo di “naturalizzazione” dell’egemonia maschile. È facile vedere che se il genere fosse davvero qualcosa come un’essenza immutabile e universale, noi dovremmo supporre che tutti gli uomini (e tutte le donne) condividano sempre e ovunque le stesse caratteristiche. Ma così non è: vi sono ad esempio società (poche a dire il vero) e situazioni storiche in cui gli uomini rifuggono da aggressività e competitività, in cui la violenza sessuale è estremamente rara, o in cui sono soprattutto i padri a occuparsi dei figli, a dispetto di un eguale livello di produzione ormonale e di una stessa storia evolutiva rispetto a società e situazioni in cui si verifica invece l’esatto opposto. Tuttavia, l’apparente semplicità con cui queste tesi possono essere demolite deve spingerci a cercare altrove i reali motivi del successo di cui hanno goduto (e di cui in parte continuano a godere), piuttosto che ad accantonarle come intellettualmente insignificanti; si tratta cioè di ascoltare il loro non detto per individuare l’orizzonte ideologico che sottendono. Il discorso essenzialista assolve infatti ad una triplice funzione di sostegno al persistente privilegio maschile. Innanzitutto esso gli fornisce una base di diritto naturale cui appoggiarsi: il dominio degli uomini sulle donne viene descritto come conseguenza inevitabile della stessa natura umana, sottraendolo così all’azione di un’eventuale teoria critica. In secondo luogo, l’idea che la mascolinità e la femminilità siano definibili e definite da un determinato corredo di qualità giudicate essenziali, e quindi naturali, risulta essere intrinsecamente prescrittiva: il possedere o meno quelle qualità diventa il criterio su cui giudicare la devianza rispetto alla norma. Infine, fare dell’appartenenza al genere un dato immutabile serve a precludere qualsiasi possibilità, e di conseguenza qualsiasi desiderio di cambiamento in direzione di relazioni più eque: in questo orizzonte una trasformazione non è nemmeno immaginabile, cosa che assicura alle strutture dominanti di potere una relativa stabilità.

Nel tentativo di evitare i pericoli dell’essenzialismo, è il costruttivismo a restare preponderante in seno ai Men’s studies, dove nella maggior parte dei casi si tende a distinguere tra nascere “maschio” (male) e diventare “uomo” (man). I vantaggi teorici rispetto all’essenzialismo sono molteplici, a partire dal fatto che le tesi costruttiviste rendono conto delle variazioni riscontrate tra epoche e culture diverse, lasciando aperto al contempo lo spazio per il mutamento; poiché infatti in questo modo il genere viene concepito alla stregua di un costrutto sociale, esso può essere modificato dall’azione politica. Tuttavia, anche l’approccio costruttivista presenta dei limiti. In effetti, poiché in questa ottica gli schemi concettuali che danno forma al nostro vissuto si producono all’interno di discorsi che nascondono tecnologie di potere, la differenza sessuale non ha nulla di fondativo, perché non preesiste ad una sua interpretazione sociale. Dal momento che il nostro modo di esperire noi stessi e il mondo è costituito e plasmato attraverso quei discorsi, ogni appello ad una realtà oggettiva precedente ed esterna al linguaggio risulta sospetto o addirittura assurdo. Il problema di queste posizioni è che esse dissolvono l’esperienza sessuata dei soggetti, annullando al contempo la tensione che esiste tra tale esperienza e le ideologie che pretenderebbero di irreggimentarla: ciò significa ignorare le contraddizioni in cui ci muoviamo in quanto uomini e che invece definiscono il senso dell’appartenenza al nostro genere.

Comunque sia, il dibattito che oppone in modo netto il sesso al genere mette in scena troppo fedelmente la schisi moderna di natura e cultura per non essere sospettato di perpetuare quel dualismo ontologico su cui la nostra tradizione occidentale si è in gran parte mossa a partire da Cartesio. Ma come uscire da questa impasse? Anche le soluzioni di compromesso sembrano imboccare un vicolo cieco. Risultano allora evidenti i limiti di una riflessione maschile sul maschile che rimanga chiusa nei confini del solo dibattito angloamericano. Al contempo però, queste difficoltà rendono attuale l’urgenza del dialogo col pensiero della differenza sessuale. Se consideriamo ad esempio l’attenzione che una Irigaray pone nel definire l’appartenenza al genere come articolazione reciproca di natura e cultura, nella salvaguardia tanto dell’una quanto dell’altra istanza, un tale dialogo non può che risultare auspicabile. Insistere sul lavoro del negativo, sulla trascendenza orizzontale tra i sessi, sul pensarsi a partire da sé, può allora risultare anche per noi uomini un modo fecondo per risolvere i problemi relativi alla teoria e alla pratica dell’identità di genere. Certo, ancora molto resta da fare in questa direzione.

 

Uomini e madri

 

L’unica esperienza realmente universale e necessaria, al di qua e al di là di ogni contingenza storica e sociale, l’unica che forse accomuni tutti gli esseri umani senza esclusioni è quella di nascere, figlia o figlio, da una donna. Per noi uomini, inoltre, ciò significa venire alla luce da qualcuno di un genere diverso dal proprio: “la prima situazione relazionale è dunque molto diversa per il maschio e per la femmina. E costruiscono la loro relazione con l’altro in modo molto differente”[6]. La nostra differenza maschile si annuncia e si situa già alla nascita nella differenza da nostra madre. Eppure, cosa resta di questa imprescindibile origine materna all’interno della cultura in cui viviamo? Ben poco, forse nulla. La nostra identità civile sembra anzi costruita sulla sua negazione: il cognome è un contrassegno esclusivamente paterno, memoria della genealogia maschile ma rimozione di quella femminile, mentre il calcolo dell’età anagrafica dimentica i mesi trascorsi nel grembo della madre. è significativo che questo oblio materno non risparmi neppure le analisi di quegli uomini che, almeno a livello consapevole, contestano l’egemonia maschile. Così, ad esempio, Jonathan Rutherford lamenta che “scorrendo i libri, gli articoli e le riviste del Men Against Sexism (MAS) pubblicati dal 1973, si ritrova un grande interesse per i padri. […] Gli uomini hanno scritto a proposito delle loro relazioni con i loro padri, dei loro propri figli, degli sforzi per allevarli in modo diverso, condividendo e scambiando i ruoli parentali. Ma è rimasta una sorprendente dimenticanza. Gli uomini hanno passato sotto silenzio le loro madri”[7]. È innegabile allora come questa dimenticanza – tanto più eloquente se riflettiamo sul ruolo fondamentale di quell’origine materna nell’economia dell’articolazione dell’identità maschile – costituisca per noi uomini un nodo psichico e simbolico da interrogare e, possibilmente, sciogliere.

In questa direzione, la psicoanalisi può rivelarsi d’aiuto. Tanto più che, grazie agli studi di alcune e alcuni dei successori di Freud, da Melanie Klein a Nancy Chodorow, fino ai cosiddetti post-freudiani di area anglosassone, l’attenzione è stata progressivamente spostata dal complesso edipico, il cui personaggio centrale è sicuramente il padre, ad una fase preedipica ruotante attorno alla figura della madre. In altre parole, pur rimanendo uno snodo fondamentale nello sviluppo psicosessuale maschile e nella perpetuazione dell’ordine patriarcale[8], il complesso edipico non ne costituisce l’unico fattore. L’idea è che il figlio maschio, il quale nei primi nove mesi forma un tutt’uno col corpo materno che lo ospita, al momento della nascita e della conseguente separazione fisica dalla madre non riuscirebbe ad operare una separazione psicologica altrettanto netta e risolutiva. Solo in uno stadio successivo del suo sviluppo il bambino, anche grazie ad una crescente indipendenza motoria e ad una serie di diverse pressioni sociali, riuscirebbe a spezzare quella fusione indifferenziata: a queste condizioni gli sarebbe allora possibile percepire il corpo materno come oggetto separato di desiderio e accedere dunque alla fase edipica, anche se la strada che porta a tale separazione psichica e ad un autonomo senso del sé è costellata di rimpianti e impulsi regressivi.

Anche Lacan, in uno dei suoi primi scritti, e sulla scorta dalle ricerche della Klein, inserisce questa fase primigenia all’interno del suo schema teorico. Ne Les complexes familiaux dans la formation de l’individu[9], egli descrive il “complesso di svezzamento” come conseguenza del distacco dal corpo materno al momento della nascita: in questo periodo iniziale, il bambino, che non è ancora dotato di un proprio Io, è soggetto ad un’angoscia di frammentazione organica (l’angoscia del “corpo-in-frammenti”) che gli deriva dalla rottura dell’unità intrauterina. Egli permane in questa situazione per i primi sei mesi di vita, sperimentando una fusione totale con la madre, progressivamente incrinata da ogni evento che riproduca il trauma originario della nascita (come ad esempio una crescente abilità motoria). In questo modo, Lacan può reinterpretare l’idea freudiana di una “pulsione di morte” mai sopita negli esseri umani, individuandone la radice e il significato ultimo non in un istinto biologico, ma nel desiderio di annullarsi in quella simbiosi primitiva. Anche gli impulsi incestuosi del bambino non vanno più letti come istinti di natura sessuale, ma come espressione del desiderio di riassorbimento nel corpo materno e di restaurazione della simbiosi primitiva. Solo in un secondo momento, nello “stadio dello specchio”, il bambino perviene alla costituzione del proprio Io singolo attraverso la ricomposizione dell’unità perduta di sé stesso, unità offertagli intuitivamente dalla sua immagine speculare, la quale però viene presto sostituita dall’identificazione con altre figure (come quella di un fratello o di una sorella più piccoli che vengono ad “intromettersi” nel nucleo familiare) che rimandano in forma idealizzata all’arcaico senso di armonia con la madre. Tuttavia, tale processo di identificazione rimane sostanzialmente instabile, oscillando di continuo tra l’angoscia del corpo-in-frammenti e l’immedesimazione mai completa con una serie potenzialmente infinita di immagini speculari successive. Il complesso edipico rappresenta allora una via d’uscita da queste prime formazioni dell’Io di stampo paranoico. In virtù del divieto dell’incesto, il padre impone al figlio la separazione dalla madre con la minaccia dell’evirazione, il che però non fa che risvegliare i desideri regressivi del figlio che erano stati momentaneamente attenuati dal ciclo delle identificazioni consecutive. Ma quando il bambino giunge a identificarsi con l’imago paterna (secondo la dinamica già descritta da Freud), questa non rappresenta più solo un’altra qualsiasi immagine di un Io ideale, ma racchiude in sé un’intera cultura: questa identificazione culturale permette allora al soggetto di stabilizzare la serie delle infinite identificazioni speculari (solo più tardi Lacan parlerà di identificazione simbolica). Il modello lacaniano può essere utile allora per interpretare le dinamiche generali di costituzione dell’identità maschile e per illuminare il primo movimento di articolazione della mascolinità: essa sarebbe il frutto mai definitivo di un processo dialettico di differenziazione (dalla madre) e di successiva identificazione (con il padre).

Quel che però Lacan non dice, è che questa traiettoria ideale non avviene in uno spazio vuoto, ma è già in origine inficiata dai rapporti di forza che vengono ad inscriversi e ad influire sullo sviluppo psicosessuale infantile. Quando cioè il bambino comincia a rappresentarsi l’avvenuta separazione dal mondo femminile materno e il conseguente ingresso in quello maschile paterno, egli si trova costretto a farlo all’interno di un contesto culturale che ha già assegnato una serie di significati valutativi tanto all’uno quanto all’altro polo. In questo retaggio patriarcale, la fusione arcaica con la madre viene associata dal figlio maschio esclusivamente ad un sentimento di debolezza e negatività. Di conseguenza, il distacco dall’orizzonte materno, pur necessario per lo sviluppo di un’autonoma capacità di simbolizzazione, viene ad assumere i tratti violenti di un matricidio metaforico, che si riflette nell’interdizione della figura materna all’interno dell’assetto sociale e culturale maschile. Tuttavia, in questo modo l’originario legame con la madre non è realmente superato, ma semplicemente rimosso nell’inconscio, da dove continua ad esercitare il suo potente influsso come fonte costante di attrazione. Ossessionati dall’idea di dovere la vita ad una donna, tentati da impulsi regressivi e nostalgici ai quali però non permettiamo di manifestarsi nella coscienza, noi uomini siamo dominati dalla ripugnanza per questi desideri, dal momento che essi ci vengono presentati unicamente come pulsioni di annullamento e di morte, e cerchiamo perciò di combatterli opponendogli tendenze aggressive e ostili. Nella dialettica tra dinamiche psichiche individuali e ordine simbolico fallocentrico, la rinuncia alla simbiosi materna si traduce inevitabilmente in un evento tragico e delittuoso: il che non ci permette di liberarci definitivamente dall’influenza di quel legame arcaico, perché esso sopravvive nel senso di colpa inconscio per l’assassinio di colei che per prima ci ha ospitato e accudito[10]. Questo conflitto non risolto tra separazione violenta e nostalgia dell’unità prenatale rischia allora di incancrenirsi in modalità patologiche strutturali, che vengono a costruire l’architettura stessa della soggettività maschile.

Ma non c’è nessuna necessità che la differenziazione dal femminile-materno avvenga nella modalità del matricidio. Ed è giunto il momento di svincolarci dal senso di colpa. Finché tuttavia quel primo legame resta nella notte dell’impensato, negli inferi della cultura, non è possibile tagliare il cordone ombelicale senza ricorrere alla violenza: ma allora, lungi dall’essere occasione festosa di differenza, la separazione dalla madre continuerà a perseguitarci con le sue Erinni. Il punto però è che la tradizione patriarcale non ci fornisce gli strumenti concettuali e pratici adatti a risignificare e agire in modo pacifico quella separazione: per farlo ci mancano le risorse, perché quelle che abbiamo sono distorte da nostalgia, misoginia, paura. Quelle risorse vanno cercate altrove. Risulta ancora una volta evidente la necessità per noi uomini di fare un passo indietro e aprirci al dialogo col femminismo: perché, da quando le donne hanno cominciato a pensarsi a partire da loro stesse, da quando hanno liberato l’universo materno dal segno negativo assegnatogli dalla tradizione maschile, nuove parole sono disponibili. Per un pensiero della differenza maschile, mettere a frutto quelle parole senza però appropriarsene, può allora significare l’elaborazione di un discorso finalmente sereno sulla nostra origine materna, capace forse di lasciarsi alle spalle la follia di Oreste.

 

Noli me tangere. Uomini e corpi

 

C’è un tratto singolare che emerge piuttosto insistentemente dalle riflessioni di coloro che hanno cominciato a ripensare l’esperienza della propria mascolinità: ed è una sorta di ripulsa per il contatto fisico e relazionale in genere, in particolare tra uomini. Così Victor Seidler: “È in questo contesto che maturiamo una profonda paura del contatto sia con noi stessi sia nelle nostre relazioni intime con gli altri. […] Non cerchiamo affatto il contatto, al contrario ne siamo spesso tacitamente terrorizzati e possiamo continuare a muoverci in modo da evitarlo”[11]. Nel mondo maschile, questo timore di un contatto troppo stretto e di una vicinanza troppo prossima affiora in modo abbastanza chiaro all’interno del rapporto padre-figlio. Quella paterna è spesso una figura distante, fredda, poco incline alla tenerezza fisica, all’abbraccio, alla carezza. Per il bambino è la madre a rappresentare la dimensione corporale dell’affetto, mentre i rapporti tattili col padre sono impediti a causa di un imbarazzo diffuso. Una certa distanza di sicurezza deve essere mantenuta anche nei rapporti di amicizia, quasi come fosse stabilita da una legge non scritta: ai corpi degli uomini è vietato toccarsi, incrociarsi, approssimarsi. Si tratta di un divieto che rischia di impoverire non poco la nostra vita affettiva, deprivandoci di un aspetto importante delle nostre pratiche di incontro dell’altro: la carne che noi siamo deve cedere il passo ad una espressività dis-incarnata. Un discorso astratto sbarra la possibilità di un’articolazione fisica dell’amore tra uomini: anche nelle situazioni di maggiore familiarità, il tra-uomini si situa all’insegna del distacco.

Ma se ora allarghiamo il raggio della nostra analisi, l’angoscia maschile per il contatto, piuttosto comune almeno in Occidente, sembra rivelarsi epifenomeno di un quadro simbolico e culturale più ampio (ma sempre sessuato al maschile), nel quale il senso del tatto viene interdetto o svilito a vantaggio degli altri sensi, in particolare della vista. Ciò che viene sottoposto a restrizione, se non addirittura a riprovazione, non è tanto l’oggetto del toccare, ma il toccare stesso. Così, Aristotele colloca il tatto fuori dall’orizzonte propriamente umano. Se infatti nel De anima egli gli assegna il primato sui sensi, è solo perché lo considera la condizione necessaria e sufficiente a definire l’essere animale. Per questo invece nell’Etica Nicomachea può affermare che il tatto (e il gusto) sono piaceri “degni di schiavi e di bestie”[12]. Il vero primato, quello gnoseologico, spetta alla vista: “preferiamo la vista a tutto, si può dire, non soltanto ai fini dell’azione, ma anche quando non dobbiamo far nulla. La causa di ciò consiste nel fatto che la vista ci dà conoscenza più di tutti gli altri sensi, e ci rivela molte differenze”[13]. La centralità della facoltà visiva era già stata stabilita da Platone, che anzi ne faceva il medium per elevarsi al mondo delle Idee. E anche quando la vista era accomunata agli altri sensi nella generale condanna del sensibile, il discorso sulla contemplazione del Bene utilizzava metafore attinte sempre dal campo semantico della percezione visiva. Tutto il mito della caverna si gioca sulla portata epistemologica dello sguardo: le catene impediscono ai prigionieri di muovere il collo e li costringono a fissare solamente le ombre che gli si muovono davanti. Se però qualcuno riesce a liberarsi, egli potrà “riuscire a vedere le cose che sono al di sopra. E dapprima, potrà vedere più facilmente le ombre e […] dopo di ciò potrà vedere più facilmente quelle realtà che sono nel cielo […]. Per ultimo, credo, potrebbe vedere il sole e non le sue immagini nelle acque o in un luogo esterno ad esso, ma esso stesso di per sé nella sede che gli è propria, e considerarlo così come esso è”[14]. Qui la libertà di vedere si identifica con la possibilità stessa di accesso alla verità, mentre eventuali limitazioni imposte alla vista si traducono per gli uomini in oscurità-ignoranza. Questa assoluta preminenza conferita allo sguardo si inscrive forse all’interno di un paradigma che potremmo definire “scopico” e che costituisce uno dei fondamenti simbolici del pensiero (maschile) occidentale. Ma c’è un elemento singolare del mito platonico che mi pare non sia stato sufficientemente considerato; infatti, oltre ai ceppi che li trattengono dal voltare il capo, nessun altro vincolo ostacola i prigionieri della caverna: le loro mani ad esempio possono muoversi a piacimento. Il problema però è che per Platone il tatto non sembra essere fonte di conoscenza: non è toccando che si può giungere al cospetto delle Idee. Esse non hanno corpo, non hanno carne, non hanno volume: tastarle, sentirle, sfiorarle sarebbe inutile, oltre che impossibile. Il primato del vedere, etico e teoretico ad un tempo, rappresenta perciò solo un lato della medaglia: il suo rovescio porta incisa la corrispondente subordinazione del toccare.

Si può allora individuare la coppia di valori contrapposti che interviene a strutturare la gerarchia dei sensi: l’astratto prevale sul concreto, l’assenza prevale sulla presenza del corpo, della carne. Questa sorta di fort\da sensoriale è piuttosto evidente, assieme ai suoi risvolti pratici, nella preminenza delle moderne tecnologie di comunicazione a distanza sulle forme di comunicazione in presenza. Il dialogo oggi è veicolato da immagini senza volume, da suoni senza spessore: la vista è l’unica protagonista dello spettacolo televisivo, l’udito della conversazione telefonica. Ma in questo modo il con-tatto con l’altro è impedito da uno schermo. Niente più sensazione della profondità, della dimensione, della materia; niente più mani che si stringono o dita che si sfiorano: una tele-logica si costruisce sulla nostra pelle. E questo vuoto di carne rischia di essere colonizzato dalle dinamiche del potere: perché quando nello scambio si perde la contiguità diviene sempre più difficile distinguere la verità dalla falsità seduttrice di una parola ideologica. Un gesto, una palpitazione, un lapsus, un battito di ciglia spesso possono tradire una menzogna: ma un messaggio elettronico ci arriva senza questo corredo fisico, cosicché è quasi impossibile capire chi si nasconde dietro quelle maschere senza corpo.

Ma cosa si cela dietro questo svilimento simbolico del tattile? Prima ho parlato di forme patologiche costitutive della soggettività maschile. Poiché la produzione di messaggi non è mai neutra, ma sessuata, dovremmo allora riscontrare tracce di quella patologia strutturale anche nei discorsi articolati dagli uomini. In effetti, dalle analisi linguistiche di Irigaray traspare chiaramente la tendenza maschile a produrre messaggi auto-referenziali a contenuto astratto e totalmente incentrati su un soggetto-uomo: tratti simili a quelli da lei enucleati a proposito della grammatica dell’enunciazione dell’ossessivo, anche se in una prospettiva non individuale ma di genere. Si può così definire “«isterica» il corpus femminile, ossessivo il corpus maschile. Questo non significa ridurre le donne all’isteria né gli uomini alla nevrosi ossessiva. Ciò non toglie che attualmente la nostra cultura metta le une e gli altri di preferenza in tali modalità enunciative, il che spiega d’altronde le difficoltà dei loro incontri” [15]. È allora legittimo chiedersi se sia possibile riscontrare altre analogie tra articolazione della mascolinità e formazioni psichiche patologiche. Se a questo punto ricordiamo quanto precedentemente affermato a proposito del disagio maschile per l’intimità fisica e della parallela marginalizzazione simbolica del senso del tatto, possiamo in effetti scoprire una concordanza con ciò che la psicoanalisi individua come segno di riconoscimento fondamentale della costellazione ossessiva: “il divieto principale, che costituisce il nocciolo della nevrosi come anche del tabù, è quello del contatto, da cui il nome: angoscia del contatto, délire de toucher. […] Tutto ciò che dirige i pensieri sul proibito, che provoca un contatto mentale, è proibito proprio come il contatto corporeo diretto”[16]. Freud ricostruisce anche la storia clinica di questa paura ossessiva: esso nasce da un’intensa voglia di toccare manifesta nella primissima infanzia, alla quale però si oppone dall’esterno (in particolar modo dal padre) un divieto in senso contrario. Tale divieto, che si impone alla coscienza, tuttavia non elimina l’impulso originario, ma semplicemente lo rimuove nell’inconscio, creando così un’ambivalenza tra desiderio e timore di toccare. Se ora ci spostiamo sul piano della mascolinità e leggiamo l’angoscia maschile per il con-tatto in analogia con lo schema freudiano, possiamo reinterpretare la brama primitiva di toccare come aspirazione al ricongiungimento con la madre, alla quale si contrappone l’interdetto paterno del “noli tangere matrem” che precede l’identificazione edipica. Le parole di Cristo a Maria di Màgdala sono emblematiche a tal proposito : “Non mi toccare, perché non sono ancora asceso al Padre”[17].

Rivalutare il contatto e la presenza, liberarci dalla paura dell’intimità, riscoprire la fecondità della carezza anche tra uomini diventa allora una priorità per un pensiero della differenza maschile: quel che dobbiamo capire è che l’esclusione del tattile dal campo delle nostre esperienze ci priva di una dimensione feconda del nostro vissuto. Rinunciare al tatto, alla carezza, alla prossimità come risorse relazionali significa inevitabilmente limitare le possibilità di un rapporto più ricco con gli altri e con noi stessi. Anche in questo caso, l’insistenza delle filosofe della differenza sul tema del desiderio è una lezione che dobbiamo imparare: infatti, anche se il maschile si è sempre rappresentato come unico soggetto desiderante, ciò che emerge in realtà è quanto “fatichi a pensarsi desiderabile, oggetto di un desiderio forte e vero da parte delle donne”[18]. Il desiderio ci apre al contatto, all’incontro dell’altro, in particolare dell’altro: donna; il suo movimento è in grado di infrangere il muro di intangibilità di cui ci siamo circondati. Ripensare il desiderio maschile in termini di reciprocità può allora essere la via da percorrere per trasformare i nostri corpi di uomini in luoghi di accoglienza per l’altro, pronti ad ospitarlo anche nella dimensione tattile della carezza.

 

In conclusione

 

Ma la strada è ancora lunga. I temi che ho qui brevemente affrontati non sono che un abbozzo, un suggerimento senza pretesa di verità. Tanto più che ci sono molti altri nodi al pettine della maschilità. Fondamentale sarebbe ad esempio analizzare le relazioni che legano gli uomini al potere: ricercare le radici dell’egemonia patriarcale, prendere coscienza delle nostre quotidiane complicità e assumercene la responsabilità diventa condizione indispensabile per tentare di articolare in modo più equo la nostra appartenenza al genere. Ma cosa resta del patriarcato se le grandi narrazioni legittimanti hanno perso la loro credibilità? Qual è la condizione dell’egemonia maschile in una situazione di post-modernità e post-sovranità?

Rispondere significa tra l’altro rimeditare la categoria di “crisi della maschilità”, spesso gridata come una chiamata alle armi dai difensori del tradizionalismo maschilista. Tale crisi è probabilmente una realtà: il punto è che dobbiamo leggerla come un’occasione di festa e non di lutto. È l’erosione progressiva dell’ideologia e delle strutture di potere patriarcali che ha preparato le condizioni stesse di pensabilità del tentativo di de-generazione e ri-generazione della maschilità. Se è vero che il passaggio dal patriarcato tradizionale al fratriarcato moderno è coinciso con la nascita dello Stato-Leviatano e con la sua teorizzazione da parte dei contrattualisti classici[19] , l’attuale ordine post-leviatanico, che sembra restituire “secondo un ordine logico-storico rovesciato (quasi come in un film proiettato all’indietro) le modalità e i fattori della sua nascita e costruzione”[20], ci permette anche di enucleare gli elementi costitutivi e genetici della compagine del potere maschile, dandoci, si spera, gli strumenti per s-compaginarla.

Quello che però mi preme più di tutto sottolineare è la necessità, per un pensiero della differenza maschile, di dialogare costantemente con le pratiche e le acquisizioni teoriche del femminismo: e non solo del femminismo di area anglosassone – con il quale già i Men’s studies hanno allacciato una relazione feconda – ma anche di quello per così dire “continentale”. È perciò “necessario riconoscere una sorta di debito culturale e sociale nei confronti del femminismo da parte di uomini che hanno trovato in esso non solo le parole per avviare una propria autonoma riflessione, ma anche lo spazio sociale per svilupparla”, riconoscendo anche come ciò abbia rappresentato “l’occasione di sperimentare una nuova ‛autorevolezza femminile’ e di avvertire un sospetto d’inattualità del predominio maschile”[21]. La rivoluzione femminista, avviando la fine di quel predominio, ha indirettamente dischiuso anche per noi uomini nuovi orizzonti di libertà. Si tratta ora di vedere come occuparli per non lasciarli vuoti, o meglio per sottrarli a tutt’altro tipo di interessi e di discorsi.

 

Bibliografia

 

Qui di seguito vorrei indicare alcuni testi, reperibili in italiano, utili per un primo approccio al tema della maschilità.  

 

Badinter, élisabeth, XY. L’identità maschile, Longanesi & Co., Milano 1993 (ed. orig. 1992).

Bellassai, Sandro – Malatesta, Maria (a cura di), Genere e mascolinità. Uno sguardo storico,   Bulzoni, Roma 2000.

Buchbinder, David, Sii uomo! Studio sulle identità maschili, Mimesis, Milano 2004 (ed. orig. 1994).

Connell, Robert W., Maschilità. Identità e trasformazioni del maschio occidentale, Feltrinelli, Milano 1996 (ed. orig. 1995).

Gilmore, David D., La genesi del maschile. Modelli culturali della virilità, La Nuova Italia, Scandicci 1993 (ed. orig.1990).

Seidler, Victor J., Riscoprire la mascolinità. Sessualità ragione linguaggio, Editori Riuniti, Roma 1992 (ed. orig. 1989).

 

Vorrei inoltre segnalare due siti internet che ospitano interessanti riflessioni di uomini sulla differenza maschile.

 

www.maschileplurale.it

www.achillesheel.freeuk.com

[1]              Penso soprattutto alle narrazioni della medicina (classica e moderna) e del contrattualismo.

[2]              Per una bibliografia approfondita cfr. R. W. Connell, Maschilità. Identità e trasformazioni del maschio occidentale, Feltrinelli, Milano 1996.

[3]              Si pensi ad esempio al “divenire donna” di Deleuze, che nella sua prospettiva è genericamente il divenire altro, segno di trasformazioni in atto più che indice di un rapporto diretto con le lotte, l’esperienza e la parola di donne reali. Cfr. Rosi Braidotti, Dissonanze. Le donne e la filosofia contemporanea. Verso una lettura filosofica delle idee femministe, La Tartaruga, Milano 1994.

[4]              Il libro di Robert Bly, Iron John: a book about men, pubblicato nel 1990, rimase negli USA al primo posto della classifica dei bestseller fino al 1991.

[5]              Cfr. E. O. Wilson, On human nature, Harvard University Press, Cambridge 1978.

[6]              Luce Irigaray, Avvicinarsi all’altro come altro, in In tutto il mondo siamo sempre in due. Chiavi per una convivenza universale, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2006, pag. 67.

[7]              J. Rutherford, Missing mothers, in Men & Mothers, “Achilles Heel”, n. 12, autunno 1991.

[8]              A tal proposito vedi l’intervento di Francesco Ragazzi nel numero 6 di questa rivista.

[9]              Ora nella raccolta postuma di Autres écrits, Seuil, Parigi 2001.

[10]            Cfr. Luce Irigaray, Il corpo a corpo con la madre, in Sessi e genealogie, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2007.

[11]            V. J. Seidler, Riscoprire la mascolinità. Sessualità ragione linguaggio, Editori Riuniti, Roma 1992, pag. 78.

[12]            Aristotele, Etica Nicomachea, 1118a 25-26.

[13]            Aristotele, Metafisica, 980a 25-29.

[14]            Platone, Repubblica, 516 A-B, trad. it. R. Radice, Tutti gli scritti, cit. Corsivo mio. È interessante osservare che termini come “evidenza” e “teoria” derivano da verbi che denotano il vedere.

[15]            Luce Irigaray e gruppo di ricerca, Sexes et genres à travers les langues. Eléments de communication sexuée, Grasset, Parigi 1990, pag. 408, cit. in L. Irigaray, Approccio a una grammatica dell’enunciazione dell’isterica e dell’ossessivo, in In tutto il mondo, cit., pag. 91n; cfr. anche Eadem, Amo a te. Verso una felicità nella storia, Bollati Boringhieri, Torino 1993.

[16]            S. Freud, Totem e tabù, Mondadori, Milano 1997, pag. 36.

[17]            Giovanni, 20, 17. Ovviamente utilizzo questo passo del Vangelo solo come suggestione, senza alcuna pretesa di rigore filologico o ermeneutico.

[18]            S. Ciccone e C. Vedovati, Liberiamo il corpo maschile, in R. Gallelli (a cura di), Corpo e identità. Educare alle differenze, Progedit, Bari 1999, pag. 80.

[19]            Cfr. C. Pateman, Il contratto sessuale, Editori Riuniti, Roma 1997.

[20]            È la suggestiva tesi interpretativa di Giacomo Marramao. Cfr. G. Marramao, Passaggio a Occidente. Filosofia e globalizzazione, Bollati Boringhieri, Torino 2003, pag. 110.

[21]            S. Ciccone, Maschile, in “Iter”, anno IV, n. 12, luglio-agosto 2001, pag. 20.