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Pratiche

 Dedicato alle maestre, la parte migliore della scuola

In questo mio contributo intendo ragionare attorno a cosa posso -possiamo- imparare da questo straordinario movimento delle scuole elementari. E’ straordinario perché contiene elementi nuovi e significativi, che permettono di riaprire un orizzonte di senso in cui collocare l’intera scuola e il nostro mestiere di insegnanti.

 

Parto da un presupposto: ormai è sotto gli occhi di tutti e di tutte che i sistemi scolastici dei paesi occidentali sono in profonda crisi. Almeno per tre motivi. Da una parte non funziona più l’assetto stesso della scuola come trasmissione di conoscenze: sempre più ci rendiamo conto che non c’è un mondo delle conoscenze costituito da certezze condivise e quindi trasmissibili; dall’altra avvertiamo con sconcerto quanto le nuove generazioni siano lontane dai modelli culturali e linguistici in cui noi siamo cresciute/i; in ultimo cresce la consapevolezza che l’idea dell’istruzione come riscatto sociale ha perso forza in un’epoca che tende a ridurre tutte le passioni alla passione di “Fare soldi e subito” come mostrano, per es., i giovani, soprattutto maschi, del nord-est, lasciando precocemente la scuola.

Che ci sia necessità di cambiamento è incontrovertibile.  Sta capitando però che alla crisi dei sistemi educativi si trovino risposte che risultano sempre più dannose.

Qui in Italia gli interventi legislativi degli ultimi anni, invece di partire dal buono che c’è nella scuola, hanno puntato tutto sull’aspetto tecnico organizzativo, si sono ispirati all’aziendalismo, al privato, alla logica mercantile, fino al disastro di oggi. Con la riforma Moratti si sta andando, per via amministrativa, attraverso continui piccoli o grandi provvedimenti, alla distruzione sistematica della scuola pubblica.

 

La mia idea è di approfittare di questa crisi –vera- e del fermento politico suscitato dalle risposte –false-, per ripensare da capo il senso della scuola e del nostro mestiere. Ripensare la scuola in movimento, con l’idea di non rimanere solo nel contro ma riformarla in prima persona, per quanto sta in ciascuna, ciascuno di noi, che non è poco. Non limitarsi a resistere ma cominciare a mettere in parole l’esistere in spazi di libertà: la libertà non ce la dà nessuno, consiste nel movimento stesso di diventare liberi e libere.

Questa lotta, con la straordinaria partecipazione dei genitori, con le loro dichiarazioni ai giornali, ai siti internet, ha fatto emergere un giudizio sociale ben netto: la scuola elementare va bene. In questione c’è più di un modello orario – il tempo pieno -, in questione c’è un modo di fare scuola, una concezione della scuola.

Le maestre lavorano bene. Al giudizio sociale mi sento di affiancare un altrettanto netto giudizio politico e simbolico: le maestre sono la parte migliore della scuola, hanno prodotto in questi anni un sapere pratico che ha qualcosa di prezioso da insegnare a tutta la scuola, per cambiarla davvero e in meglio.

E’ uscito da pochi giorni, per le edizioni Junior, il libro Voci maestre di Cristina Mecenero, che è una maestra elementare, che finalmente dà voce alle maestre che sono il 95% della scuola elementare e finora sono rimaste troppo mute. Intervistandone alcune e osservandole in classe, il libro ne fa un soggetto che produce sapere. Cristina propone il sapere della maestra come “Saper stare vicino all’inizio, saper rimanere in contatto con le cose essenziali, di base”. E constata che “ E’ un’arte che nella nostra cultura è posta ai margini, quando addirittura non ecclissata”.

Un libro corale che consiglio di leggere a insegnanti di ogni ordine di scuola, ma anche a intellettuali che con troppa leggerezza denigrano chi ci lavora, ai genitori interessati a figlie e figli, a chi ha a cuore le nuove generazioni e una possibile convivenza umana.

 

Ispirarsi alle maestre per cambiare la scuola sembra semplice, ma non lo è. Di mezzo c’è un cambiamento di sguardo sulla realtà, un capovolgimento dei criteri di valore dominanti nella società e nella scuola, quelli per cui il sapere dell’esperienza delle maestre vale zero. Un inconsapevole sentimento di superiorità nei confronti delle maestre è esperienza comune e diffusa. E infatti prevale in chi insegna alle medie, e ancora di più alle superiori. Per non parlare del come le considera la società: sono pagate meno e lavorano di più. E c’è una ragione. Nel 2001 come movimento di autoriforma della scuola avevamo organizzato un convegno dal titolo “Le maestre e il professore”, perché d’improvviso su questo valore zero si era aperto uno squarcio di consapevolezza su una di quelle questioni che stanno nel fondo di una cultura, un presupposto implicito che ci muove, ma di cui non abbiamo coscienza. Assieme, nel dialogo abbiamo messo a fuoco come sia l’idea aziendalistica dell’insegnamento che quella gentiliana poggiassero su una precisa gerarchia di potere legata al sapere, fatta di valori simbolici riferiti all’essere donna e all’essere uomo: come una piramide, dove al fondo sono le maestre e un sapere che tiene assieme conoscenza e affetti, che ha cura degli esseri umani e delle relazioni, a cui non si assegna valore, e in cima invece c’è il professore e il sapere neutro specialistico, considerato più nobile perché oggettivo e scientifico, perché più vicino all’accademia e depurato dagli aspetti emotivi (gli atti di questo convegno si possono consultare nel sito autoriformagentile.too.it ).

Rovesciare quei valori simbolici intacca, anche nelle nostre menti, una precisa gerarchia di potere, apre dei varchi che rendono praticabili altre strade. Ora è un tempo buono per farlo, perché questo movimento delle elementari, coinvolgendo i genitori, è “uscito” dalle scuole e ha creato un terreno di lotta e di discussione nel tessuto stesso della società.

Sta ricomponendo attorno alla scuola il corpo sociale, con un’idea di società che sia effettivamente civile e pubblica e condivisa. Molte delle scuole che lottano con più intensità a Roma e a Milano, sono in quartieri di periferia, dove le famiglie lavoratrici, quelle meno benestanti, si vedono ogni giorno portar via pezzi dello stato sociale. Ma cosa si può fare quando ci si trova individualmente davanti allo sportello dell’ospedale a pagare un ticket raddoppiato? Niente, si vive solo uno stato di impotenza. La scuola invece è di per sé un luogo di incontro, potenzialmente uno spazio pubblico, e si stanno creando le condizioni perché lo sia davvero.

 

Con questo movimento delle elementari la scuola ha ritrovato la sua lingua, che non è quella degli obiettivi, delle griglie, della mission, dell’efficienza, ma non è neppure quella delle manifestazioni contro, con parole d’ordine dure e gridate, quasi militaresche, o delle piattaforme rivendicative. La sua lingua è quella di una comunità vivente in cui le cose che contano sono quelle umane ed elementari che hanno a che fare con la vita di tutti i giorni. In piazza, la presenza massiccia di donne, e –soprattutto- il voler tener dentro anche bambini e bambine, misurandosi con la loro sensibilità, ha cambiato la lingua e la forma politica della manifestazione. A Milano, per S. Valentino, l’hanno chiamata “Manifestazione d’affetto per la scuola pubblica”. Trovare forme linguistiche nuove significa trovare altre forme di politica. Portare in piazza foglietti come quello che ho ricevuto dalle mani di una bimba, che avrà avuto 8 anni, è rendere politico il quotidiano. Diceva: “Le mie maestre vogliono continuare a lavorare insieme”. In questa semplice frase c’è un mondo: la bimba che non voleva perdere da un giorno all’altro una delle sue due maestre, il desiderio delle due maestre di continuare a fare scuola in un certo modo, cioè quello costruito sull’essere due in classe, che permette di fare attività creative, i suoi genitori a cui va bene così. Questa semplice frase che in prima battuta sembra confinata a quelle persone lì, come un loro desiderio quasi privato, quando viene scritta su un foglietto distribuito in piazza acquista una dimensione pubblica, pur rimanendo un linguaggio tanto vicino al quotidiano da sembrare banale.

 

La scuola è un sistema vivente e all’interno di esso –volenti o nolenti – siamo dentro sistemi di relazioni. Con i modi relazionali che pratichiamo, con la lingua che usiamo, in modo consapevole o inconsapevole, noi veicoliamo una certa idea di scuola, l’accreditiamo e la facciamo vivere. In questo c’è la possibilità di una scelta politica che sta a ciascuno, ciascuna di noi. Cominciamo a domandarci qual è l’idea di scuola che facciamo vivere: o è la scuola del registro e del programma, quella che ne fa una struttura di dominio e di riproduzione delle classi dominanti, come era un tempo; oppure è quella delle attività a pagamento, che ne fa una merce da comprare e vendere sul mercato, come è prefigurata dalla riforma Moratti; oppure – e questa è la possibilità che si apre in movimento – è una scuola che diventa fino in fondo pubblica. La dimensione pubblica non è acquisita una volta per tutte, non è garantita dalla parola statale accanto al nome della scuola, vive o non vive nelle nostre scelte quotidiane. E’ una lotta giorno per giorno. A cosa dico sì, a cosa dico no? Quanto tengo fermo dentro di me il senso pubblico della scuola, rimisurandolo ogni giorno assieme, nelle relazioni che pratico? Quanto le mie pratiche sono pratiche pubbliche? La dimensione pubblica vive se la scuola diventa veramente uno spazio in cui, a partire dalla propria differenza, di sesso, di età, di cultura, si portano desideri, passioni, curiosità, scoperte, da condividere e su cui costruire sapere assieme.

 

ASSIEME CON, queste parole dicono una relazione imprevista e senza nome nella società che abitiamo. Lo constatava con amarezza già nell’80 Anna Maria Ortese in Corpo Celeste (pag. 42). Cercava e non trovava nella letteratura, se non in alcuni poeti, il segno di una coscienza terrestre “… che abbia al centro la parola essere, prima di ‘avere’ e ‘potere’, la parola ‘essere con gli altri’, invece che ‘contro o sugli altri’.”.

Le maestre sanno, praticamente, come si costruisce sapere assieme con, perché con l’infanzia, se ci si sta non volendo essere da un’altra parte, si può stare solo in questo rapporto assieme con. Altrimenti si fanno guasti terribili.

In questo processo che è un cambiamento di sé in prima persona, ispirarsi a ciò che di meglio c’è nell’essere maestra offre l’orientamento di un pensiero radicale. Ha un valore politico e simbolico. Ha il senso di rifare oggi, nel contesto reale – nelle mutate condizioni di un tempo presente che ha da pensare la differenza – il gesto simbolico che fu di Don Milani, quando indicava nel punto di vista dei poveri, un punto di vista capace di cambiare tutta la scuola e la cultura.