diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 4 - 2005

Il Dio delle Donne

Dalla clausura. Le poesie di suor Luciana

Le poesie vanno lette, non commentate. Sfogliando il testo di suor Luciana (Luciana Myriam Mele osb, Echi, Milella, Lecce 1999), quando sono arrivato alla poesia dedicata a Antonio Leonardo Verri, mi sono ricordato di quando egli mi chiese un intervento su Vittorio Pagano per il “Pensionante dei Saraceni”, ed io lo intitolai provocatoriamente: In odio ai chiosatori. Poi Donato Valli ha scritto, da par suo, cose molto belle e giuste sulle poesie di suor  Luciana.

Allora perché parlare ancora di poesie, se non per commentarle? Leggere e parlare di poesie a me serve per entrare nella poesia, dentro chi ha scritto la poesia. Ma l’animo è già clausura: si può entrare nella clausura, si può andare oltre la grata? Possiamo leggere le poesie di Luciana, “oltre la grata”?

L’oltre è relativo alla clausura. Ma c’è un oltre la grata dalla parte di suor Luciana, c’è un oltre la grata dalla nostra parte. E se la clausura fosse la nostra? Il limite materiale fonda la libertà, non l’annulla. C’è l’esempio kantiano della colomba il cui volo non è limitato dall’aria ma ne è permesso.

La grata diviene la griglia, la cernita, il setaccio, come lo strumento che usano i bambini per secernere la sabbia e le conchiglie o le donne per secernere la farina dal resto. Le grate della clausura setacciano la vita, la fanno entrare e uscire nei due sensi, la uniscono alle altre vite e alla altre verità. Il lessico, le parole servono solo da indizi e sono gli unici indizi che abbiamo.

Scrive suor Luciana: “Fratelli/ le mie grate/ setacciano la vita/ e gusto/ la verità che siete/ inconsapevolmente/ la serbo come olio/ per la notte d’attesa/ perché la sala di nozze/ trabocchi di occhi di tutti/ nella luce (p.104).

Anche nel Cantico dei cantici, il recinto, la clausura sono lo spazio della conoscenza e dell’amore (“Mentre il re è nel suo recinto,/ il mio nardo spande il suo profumo”; 1, 12; “[lo sposo] spia attraverso le inferriate”; 2, 9)

Se la lettura serve a questo commercio d’anime attraverso le grate, la scansione temporale della raccolta (1973-75, 1978, 1979, 1980-1982, 1995-1995) interessa poco, tutt’al più riguarda la forma in cui il vissuto si comunica. Si comunica non solo al lettore, ma anche all’autore (“la verità che siete [O: – che sono, che siamo?] – inconsapevolmente”)

La scansione non riguarda il vissuto che è sempre in un’unità indissolubile: il primo e il dopo sono solo distensioni dell’animo, c’è solo il presente (Agostino). La verità dell’animo è il presente. Entrare nell’anima vuol dire interferire con l’anima dell’altro, ma anche esserne contagiati. La parola dell’altro cresce in noi, si modifica in noi, noi cresciamo con la parola. La rivelazione non è stata data una volta per tutte è un percorso, un sentiero: è una via, non un edificio da abitare.

Eloquia divina cum legente crescunt, ha scritto Gregorio Magno, nella Homilia in Ezechielem. A Ezechiele Dio fa mangiare il rotolo con la propria Parola: “per la mia bocca fu dolce come il miele”. Ezechiele parla in ubbidienza, parla la verità.

Pensando a Luciana e alle sue poesie e alla sua esistenza risaltano due termini: verità e obbedienza. Mi richiamano un’altra grande donna, convertita, forse battezzata: Simone Weil. Alla fine della seconda guerra mondiale, viene incaricata di scrivere un libro sui diritti dell’uomo, dopo le dittature. Lei scrive L’enraciment [Il radicamento]; Prélude a una déclaration des devoirs envers l’être [nella traduzione italiana: la creatura] humain

Nella parte prima parla delle esigenze dell’animo, che sono quattordici. La terza è l’ubbidienza: “L’ubbidienza è un bisogno vitale dell’anima […]. Essendo l’ubbidienza un nutrimento necessario dell’anima, chiunque ne sia definitivamente privo è malato […]. Mille indizi dimostrano che gli uomini della nostra epoca erano da gran tempo affamati di ubbidienza. Ma ci si è approfittati di loro, ed hanno avuto la schiavitù” (18, 19).

L’ultima è la verità: “il bisogno di verità è il più sacro di tutti. Eppure non se ne parla mai […]. Non è possibile soddisfare l’esigenza di verità di un popolo se a tal fine non si riesce a trovare uomini che amino verità” (37, 40)

Ma la verità si può amare? Torniamo alle poesie di suor Luciana per trovare la sua risposta: “scoprire/ la verità/ del nostro/ lungo Amore…”   (19, 1973). La verità ama? La buona novella è che il Dio padre non il Dio che a Pasqua uccide i figli degli egiziani; forse è il Dio-madre, di Papa Luciani, di Giovanni Paolo II, di tante teologhe.

La verità è amore, come scrive Paolo di Tarso. E l’amore è verità, come scrive suor Luciana. È l’attesa della sposa In Attente de Dieu: di Simone Weil, Dio è il soggetto atteso: “Cristo è venuto e mi ha presa”; è venuto nella stanza di pensione di Simone. È venuto oltre le grate, nella cella di Luciana: “Gesù/ divenne/ il Cristo che attendevo”; 26, 73; “Io/ resto/in questo spazio/ vuota della morte/ credendo/ ancora/ che tu/ qui/ compaia”; 27-28; 73; “Tu sei entrato/ lo so/ nella mia stanza” (39, 78).

Perché il titolo Echi? Un anno fa ricordai la storia di Eco a proposito di un altro libro: Echi di una voce, dedicato a Franco Prontera, un altro fratello di Luciana che si è allontanato da noi. Dissi che Eco è una giovane ninfa canora, “che non sa tacere di fronte a chi parla, né essa stessa sa parlare per prima” (Ovidio). Ha un corpo bello, si innamora di Narciso che si innamora della sua voce, ma non la riconosce nel corpo e la scaccia. Lei si consuma d’amore, il corpo “si disperde nell’aria”, rimangono le ossa e la voce, le ossa assumono la forma di pietra

“Da allora essa sta celata nelle selve, né mai appare sui monti; da tutti è udita; è un suono soltanto quello che di lei vive”. Quello che di lei vive è una voce, una eco se Eco è persona senza corpo. Anche Suor Luciana dice: “sentir la carne/ tramutarsi in pietra” (70,82). Dalla grata arriva una voce senza corpo; il commercio corporeo ci è precluso; perché il corpo è riservato al rapporto con l’Atteso.

L’attesa e la visita si stemperano nel silenzio, che, nelle poesie è circolo d’Amore: “nel bianco/ silenzio di Dio” (19,73); “voglio che le loro [dei poveri ] grida di gioia/ coprano i nostri vuoti silenzi” (36, 79); “un silenzio che non è più l’attesa” [perché Cristo è entrato] (38, 78); “[Gesù] che parli i tuoi silenzi” (47, 78); “silenzio e sorriso […] [di] Maria/ donna di Nazareth/ silenzio/ dell’Onnipotenza” (49, 78); “Il mio silenzio / è cieco/ per questo/ vedrò la luce” (55, 79); “divenir silenzio/ nella tua Parola” (76. 80-82); “oltre il mio stare// silenziosa/ traccia d’amore” (87, 1990-995); “Sì,/ già sapevo che il tuo silenzio,/ Dio,/ è come cielo disteso su tutto […]Solo/ rendimi ascolto/ del sussurro dei cuori/ e della cose” (91, 90-95).

E il deserto, che è rifugio e alloggio: “per tutti/ è la promessa/ del deserto” (20, 73); “tutto consuma un deserto” (38, 78); “finché il deserto/ vibri/ nella nota più tenue” (83. 1990-95); “Ogni deserto/ ha una tenda/ e una palma” (100, 94). Il deserto è lo spazio reso vuoto, la cella pulita per l’Atteso.

Senza ascetismi, anzi la terra è lo spazio di casa. Leggiamo lo “stupore di Abramo/ intento/ a vendemmiare sabbia e stelle” (24, 75); “Ci stupì/ quel tuo svellerti da terra/ all’improvviso” (30, 75); “sterile terra /che desidera fiori” (63, 79)

In questo lessico poetico troviamo pietre e mattoni familiari, luoghi di gioco: “Voglio che [i poveri] giungano al trono/ dinanzi all’Agnello/ che giochino/ con le stelle/ come con le cinque pietre” (37, 79); “Le foglie della mia tela sono schizzate sul muro grigio / della mia stanza/ bivacco d’autunno/ e danzo/ tra qualche mattone sconnesso che amo/ in un insolito gelo” (44, 78); “Hai mai visto/ il sole/ giocare con le antenne/ danzare tra le tende/ raggiungere un mattone” (45, 78).

Ma come è il mondo oltre la grata, dalla parte di Luciana? Filtra un mondo colorato. Elenco alcune macchie di colore: “Ho perso la perla rosa” (62, 79); “quando/ una lama di luce / pervinca/ annuncia che la notte/ non è” (98); nell’ultima poesia (natale ‘95): “nel nido/ di una cocolla nera/ canto la Luce” (108); “ti [a Maria ] donassimo mani un po’ arrossate/ occhi neri/ d’oliva” (49, 78); “Le foglie della mia tela sono schizzate sul muro grigio” (44, 78).

Ma ci sono i colori dominanti che scandiscono la poesia di Luciana. Il primo, anche in senso cronologico, è il bianco: “nel bianco / silenzio di Dio” (19, 73); “i cani bianchi/ hanno occhi smarriti/ lontani/ dalle loro carovane” (21. 75); “Voglia [di Dio] che tutto devasta/ valanga/ che tutto trascina/ bianca nel gelo” (43, 78); “risplendevano seni bianchi/ e grembi teneri e vuoti” (62, 79); “ho voglia/ di un mandorlo bianco” (69, 80-82); “in un cielo/ bianco di scirocco” (82, 1990)

Poi c’è l’arancione: “Spaccherò la mia arancia in due” (39, 78); “il tuo inverno è una festa di aranci” (53, 78); “C’è ancora una grondaia/ ed un granturco allegro/ per te [colomba]”; (58, 79)

Poi ci sono il rosso e il fuoco del roveto, del roveto che brucia e non si consuma, il roveto da cui nasce la parola di Dio, il roveto a cui non ci si può avvicinare con i sandali, perché è terra santa: “Ho slacciato i calzari/ perché ho visto,/ ho visto il roveto” (79); “questa terra è rossa e dorata/ per il guizzar del fuoco che non muore. […] che danza nel piccolo roveto del mio chiostro” (79,80; 1990-95); “ma, credi,/ arde il roveto/ ancora/ nel nostro oggi” (84, 1990-95); “ogni deserto/ ha un roveto lontano” (100, 94).

Da ultimo l’azzurro, che è il colore finale: “fa esplodere azzurri/ nel lavoro” (56, 79); “ti [colomba] condurrò sul mare/ sull’azzurro del mare/ e parlerai ai gabbiani” (58, 79); “mentre l’inverno accoglie un azzurro diverso/ e si fa/ fresca/ ogni cosa” (69, 80-82); “nell’azzurra vertigine/ narrai/ tutto il lieto stupore della Grazia” (73. 82); “ritrovarti/ nel tuo vestito blu” (74, 80-82); “Ascoltarti è rischiare/ ogni volta/ una diversità/ lasciare che si squarci/ l’azzurro che mi do/ su altri azzurri/ sorpresa/ del tuo essermi dono” (6,92; 94); “il cielo di gennaio/ mi sorprende/ azzurro/ nel vano della porta” (103); “Non so dove e perché ti nascondi/ azzurro fatto buio// ma sempre/ arde il ricordo di te/ come impegno/ che non voglio mancare// mai” (107, marzo 95: penultima poesia).

Come concludere questo pellegrinaggio tra le parole, questo percorso tra sentieri interrotti, se non con l’auspicio dell’autrice: “essere/ suor Luciana Mirjam/ sorella e madre di tutti/ nel mio esserti figlia” (98)? E io ritorno all’inizio, a quell’8 maggio 93. La notte tra l’8 e il 9 morì Antonio Verri, poeta dolcissimo e durissimo, poeta della Betissa. Luciana lo attende: “oltre/ il limite della parola/ l’incontro// mi resta/ la tua orma/ pura/ sorpresa della Grazia/ oltre le grate/ e sei/ per sempre/ fedelmente fratello” (92).

Così possiamo dire noi di suor Luciana: oltre i limiti delle parole, oltre le grate, ci resti la tua pura orma, la tua eco sorpresa dalla Grazia e dalla venuta del tuo Atteso.