diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 6 - 2007

Differenza maschile

Da figlio a padre

 

Andava come una stirpe che si aprisse il varco

dall’inferno verso la largura.

(B. Pasternak, Le onde)

 

 

 

Non ho mai avuto un buon rapporto con la scrittura. Ora, per esempio, me ne sto seduto sulla punta della seggiola, proteso in avanti sopra la tastiera come se dovessi cercare a volo d’uccello una buona frase su cui lanciarmi in picchiata. Come sempre, la pancia mi fa sentire i suoi movimenti con piccole fitte continue e mi avvisa che qualcosa sta cercando faticosamente di uscire. Mi insegna che il cervello e l’intestino sono intricati allo stesso modo, che non si può pensare a un’anima distinta dal corpo. Scomodo come sono, sento tendersi i muscoli delle spalle e del collo, come sempre. Ma stavolta la scomodità non deriva solo dalla mia postura scorretta. E’ una scomodità doppia, in cui rimane coinvolta anche la posizione simbolica che assumo mentre sto scrivendo queste righe. E’ la posizione di giovane maschio europeo nato tra le rovine del patriarcato, che parla a una comunità di pensatrici nei confronti delle quali sente di avere un debito personale e filosofico. Difficile pensare a una relazione più asimmetrica: ad accettare di starci dentro già mi tremano le gambe. Com’è possibile una relazione del genere? Forse la domanda va intesa alla lettera: nel solco del pensiero della differenza, si può costruire un rapporto tra i generi? In che modo un maschio può onorare la sfida e la scommessa del femminismo?

Per tutto l’articolo non farò altro che parlare del posto da cui sto parlando: la sua scomodità sarà il mio oggetto d’indagine. Cercherò di capire se il suo intrinseco disagio non possa lavorare a mio favore, non possa funzionare come motore di un cambiamento. Prima però è necessario rispondere a una domanda fondamentale che proprio una di voi mi ha insegnato a pormi.[1] Chi mi porta ad accettare ostinatamente una scomodità tanto scomoda? Chi me lo fa fare? Me lo fa fare una filosofa, Wanda Tommasi,[2] che in un suo saggio parla di come molte donne hanno saputo attingere alla tradizione filosofica con un amore capace di trasfigurarne l’impianto misogino.

Danzare si può, su quel pavimento accidentato – scrive – ma bisogna stare attenti a non ferirsi: un’arte della danza così libera e leggera da saper scansare abilmente le asperità più pericolose e da impadronirsi con destrezza dei frammenti mosaicati più preziosi è riposta nell’appropriazione weiliana di Platone, nell’amore di Maria Zambrano per Seneca, nella predilezione di Etty Hillesum per Rilke e Dostoevskij, nelle giravolte concettuali di Hannah Arendt sul tappeto della tradizione degli antichi greci.[3]

 

Mentre rimango affascinato dall’immagine di un pensiero che danza nell’aria simile a un respiro, sento tuttavia che qualcosa mi disturba. Qualcosa nel testo mi provoca. Questo qualcosa mi viene da chiamarlo il peccato originale del patriarcato. E’ una specie di meccanismo diabolico, un circolo vizioso che costringe gli uomini a ripetere coattivamente la loro adesione all’ordine simbolico della legge parricida e fallogocentrica: perfino, e per questo in modo ancora più forte, quando questi cercano di accettare il seducente invito a ballare. Sembra una condanna inaggirabile. Wanda Tommasi non ne parla esplicitamente perché non rientra tra le pieghe che desidera dare al suo testo, ma mi sembra di scorgerla tra le righe come una logica conseguenza.

Per capire come funziona la macchina paradossale, che riesce a trarre linfa persino da quelli che, come me, vogliono prestare ascolto alle voci del femminismo, è necessario prima mostrare la struttura con cui la legge paterna si manifesta:

Si può delineare la storia della filosofia come la storia di un conflitto: conflitto dei figli con i padri, cimento mortale per catturare la preda della verità. […] La figura del conflitto, del cimento mortale in nome della verità, che invade la scena, occulta in realtà l’altra mossa, che ad essa è inscindibilmente legata, quella che consiste nel conservare il significato profondo di ciò che si vuole combattere e sconfiggere.[4]

 

Guerra tra maschi dunque, luogo da cui le donne sono escluse e in cui la legge del Padre coincide con la legge della sua uccisione. Abbiamo già visto come molte donne siano riuscite a far fruttare quest’esclusione dalla lotta a proprio vantaggio, creando, faticosamente e a caro prezzo, altri piani di pensiero e di autorità. Ma per gli uomini è tutto diverso. Per loro (per noi) abitare negli spazi di libertà aperti dalle donne sembra pretendere di occupare un posto inoccupabile. Si tratta forse, per usare un termine di Diana Sartori, di un particolare tipo di inchiodamento[5] del maschile sulla propria radice conflittuale-edipica: un inchiodamento che avviene perfino a rigor di logica, quasi in forma sillogistica. Il patriarcato infatti, per conservare il suo potere mortifero, perpetua la sua struttura accettando il sacrificio: se potere del padre esiste, questo si mostra nella colpa che i figli provano dopo aver compiuto il delitto simbolico. Il genitore acquista il potere del divieto solo resuscitando angosciosamente nelle menti della sua prole come un fantasma: negare la sua autorità significa per ciò stesso fondarla. Patriarcato e parricidio si alimentano in un circolo che sembra impedire ogni uscita: come se guardassimo un oggetto muoversi in parallasse, ogni allontanamento si rivela un ritorno. Che ne è allora dei (pochi) tentativi che gli uomini hanno compiuto per zittire la voce paterna e mettersi in ascolto delle loro madri, nonne, sorelle, zie, amiche? Cercare di fare tabula rasa del Padre e del patriarcato non ci porta, secondo logica ineludibile, a perpetuare l’omicidio e tornare alla coazione del conflitto edipico? Se le cose stanno in questo modo, la lezione del pensiero della differenza è per gli uomini impossibile da assimilare, così come rimane impossibile produrre il taglio col patriarcato.

So che non conta granché in Filosofia, ma posso dire di saperlo per esperienza. Fin da bambino, ho sempre provato una sorta di disagio al pensiero di dovermi confrontare con l’autorità maschile: a cominciare da mio padre. A lui voglio molto bene e penso sia un ottimo papà – non voglio essere frainteso – ma il suo carattere agonistico mi ha tenuto spesso a distanza, soprattutto nei momenti in cui c’era da imparare qualcosa. Perfino mia madre, insegnante in una scuola superiore, lo prende in giro: “Per fortuna che non hai fatto il professore” lo incalza, sapendo di farlo impermalosire. E’ fatto così: forse per far fronte a una sua perenne insicurezza, che lo rende peraltro scrupoloso nel lavoro che fa, reagisce all’insicurezza altrui attaccando. Mette alla prova le persone, usando l’arma pungente dell’ironia; se deve spiegare qualcosa, perde facilmente la pazienza; stacanovista e autocritico lui per primo, non accetta facilmente le debolezze degli altri. Dal suo atteggiamento ho imparato il valore fondamentale dell’autonomia, ma, per quel che ho potuto, ho cercato di schivare il confronto diretto: mi sono mosso su piani paralleli ai suoi, sviluppando altri campi d’interesse. La contropartita è stata che, guardando indietro, scopro di non aver imparato nulla di quello che di solito i figli maschi imparano dai loro padri. Non so giocare a calcio, non so guidare la macchina, non so nemmeno andare in bicicletta. Un disastro!

Una diffidenza più grande, di gran lunga più giustificata, la sento poi verso l’ambiente accademico. Difficilmente il pensiero femminile compare tra gli argomenti dei corsi: questo si sa, ma non è tutto qui. Mi irrita di più pensare a quante volte, durante le lezioni, mi sono sentito ripetere che il procedimento elenctico è lo strumento principale della filosofia.[6] Come se la filosofia coincidesse con la confutazione, come se le opzioni tra cui scegliere fossero riuscire a negare il pensiero dei grandi autori oppure riconoscerne l’autorità, diventandone commentatori il più ortodossi e accademici possibile. Personalmente, della filosofia a me è sempre piaciuto tutt’altro: la parentela che Heidegger rintraccia tra il costruire e il pensare, ad esempio, la quale a mio parere fissa la priorità del mettere in piedi, del produrre mondo e realtà sull’istanza di confutare le idee.[7] Distante dal modo mortifero di intendere la filosofia come pòlemos, non sono mai riuscito a trovare tra gli uomini dei maestri, né vivi né morti. L’unico è stato forse Michel Foucault, che ammirava i movimenti politici delle donne e sosteneva di non amare le polemiche perché “in questa commedia si mima la guerra, la battaglia, gli annientamenti e le rese senza condizioni; si fa passare tutto quello che si può attraverso il proprio istinto di morte”.[8]

Al contrario, la mia vita è da sempre costellata da figure di autorità femminile, alle quali devo quasi tutto quello che so e che sono. Penso ad esempio alle mie nonne che, attraverso i loro rituali domestici, mi hanno insegnato una prima semiotica degli affetti. Penso a mia madre a cui devo la nascita, la lingua con cui parlo e molto altro. Di lei ammiro la capacità di aver trasformato le sue insicurezze, che in larga parte condividiamo, in punti di forza. Penso infine alle maestre che mi hanno portato a sentire passione per la Filosofia: quelle di cui ho sentito la voce (Margherita Sandri, Cristina Borin, Diana Sartori), quelle di cui ho letto le parole (Maria Zambrano, Diotima, Vandana Shiva, Judith Butler).

Eppure è da qui che parte il mio personale chiodo, il quale mi costringe in quella scomodità doppia di cui ho parlato. Col maschile è questione di riconoscimento: per il mio professore di Teoretica i miei “investimenti” filosofici sono destinati a perdere valore negli anni. Costato che le nostre economie non sono compatibili. Ma anche dall’altro lato della differenza femminile, continuo a stare scomodo, in maniera duplice pure questa volta. Un nuovo bivio a cui sono messo davanti mentre scrivo: senza muovermi, lo guardo.

La prima delle due biforcazioni ha per segnavia il saggio di Wanda Tommasi da cui sono partito: provocatorio e provocante, dal mio punto di vista, poiché in esso mi sembra di non trovare posto. Tanto mi sento lontano, assieme alla filosofa, dalla tradizione misogina e parricida, quanto il testo non mi aiuta ad elaborare positivamente questa distanza. Sarà per una giustificata divisione sessuale del lavoro filosofico, ma della mia particolare posizione simbolica non si fa parola. Il saggio semmai mi lascia pieno dei soliti dubbi: se mi discosto dal solco della tradizione paterna per avvicinarmi al pensiero della differenza, sto nuovamente ingaggiando uno scontro parricida? Il patriarcato è allora un peccato originale per gli uomini? Come trovarne salvezza? Lavoro per intuizione sul non detto perché ciò che Tommasi dice per certi versi mi mette alla prova, mi respinge. Forse sperimento la stessa sensazione di molte donne, costrette a fare i conti con una tradizione che non le rappresenta adeguatamente né le prevede: la fatica di stare a piè fermo in un vuoto di sapere piuttosto che accontentarsi dell’inclusione nella verità altrui.[9]

Riconosco la seconda strada a partire da una manciata di parole che mi hanno guidato negli anni. Alcune sono qui citate esplicitamente (chi te lo fa fare, inchiodamento), altre sostengono la mia scrittura da sotto e la incardinano. Se si legge bene, si può indovinare la loro spinta: l’importanza in filosofia di trovare rispondenze più che risposte, la mossa di scarto come salto mediato dalla riconoscenza verso il luogo da cui si proviene, la felicità contrapposta alla coscienza infelice universitaria. Sono state tutte un regalo prezioso della mia professoressa del liceo, Diana Sartori, la quale, anche dopo il diploma, non ha mai smesso di trasmettermi sapere attraverso le pagine scritte da lei per Diotima.[10] In quelle parole mi riconosco pienamente: sembra che parlino a me, che parlino di me. La mia risposta ad esse è dunque un’adesione piena che vorrei senza mediazioni. “Mi legge nel pensiero!” penso spesso. Ho paura però che il mio aderire si faccia appiccicoso. In fin dei conti, lei può parlare come parla perché ha messo a frutto la sua differenza sessuale prima di tutto in una pratica vissuta intimamente: una differenza e una pratica che non sono le mie. Posso appropriarmi delle sue parole o sto piuttosto saccheggiandole, come Platone ha tolto le parole di bocca a Diotima?[11]

Insomma, parlo dove non sono e sono dove non parlo. Il bivio in cui incappo mi offre un furto in alternativa a un posto vuoto. La mia lingua dovrebbe essere biforcuta per riuscire a seguire la via? Mi consolo, trovando nella letteratura di ogni tempo altri compagni impegnati a slegarsi dal nodo del patriarcato: sono altrettanti segni che questa è una questione capitale per la nostra stessa esistenza. Una questione di vita o di morte non ancora posta nei giusti termini, e per questo mortifera. Per amore di Giulietta, Romeo rinnega il padre e rifiuta il suo nome, andando incontro all’esilio prima e al sacrificio poi. La tragedia mette in scena l’uscita dall’ordine simbolico che regola i rapporti sociali, una fuga compiuta per rispettare la verità di un sentimento immediato e totale. Ma, di necessità, il tentativo di fuga fallisce perché conduce nel contempo all’uscita dal campo della rappresentazione e del linguaggio (fallocentrici). Evadere dalla comunità significa allora morire.[12]

Con gesto non meno drammatico, Attis si evira per poter accedere al culto di Cibele. Una volta placatosi dalla divina mania, si pentirà del suo atto sconsiderato, rimpiangerà la patria da cui si è ormai diviso e in cui mai potrà tornare: la mimesi cercata con il femminile rimane tensione incompiuta. Col suo rimpianto però, il giovane fa torto alla dea, la quale libera i suoi leoni per ricacciare l’empio nel mezzo della foresta a lei consacrata.[13] Così termina il racconto, ma la conclusione acquista ancor più rilevanza alla luce del suo avvio: secondo una variante del mito, Attis nasce senza padre, dallo sperma di Zeus caduto sulla roccia. Si può ipotizzare allora che il culto di Attis e Cibele rappresenti un ordine simbolico fondato sulla fertilità materna successivamente negato e assimilato nel sistema delle divinità olimpiche.

Anche Emone, il promesso sposo di Antigone, è costretto infine a perire. Persino lui, che pure ha coscienza della portata del suo discorso: proteggendo l’amata non sta difendendo solo colei che ha violato le leggi della città. Dice al padre, che lo accusa di parteggiare per la donna «Sei dunque una donna? Perché è di te che mi preoccupo» e ancora «Parlo per difendere te e me e le divinità dei morti».[14] Emone comprende la rilevanza politica del gesto che Antigone compie, una rilevanza oserei dire universale. Bisogna però intendere cosa significa qui l’universalità. Non è la pretesa totalizzante di imporre una verità, mossa da un soggetto neutralizzato della sua differenza, ma piuttosto lo sfondo di una domanda che chiede fedeltà alla propria incarnazione nel mondo. Di questa domanda Emone si fa medium nei confronti di Creonte, il quale tuttavia non cede. Avendo giurato di non fare torto al padre, conservando fino alla fine il principio di mediazione, il ragazzo rivolge allora su di sé il proprio istinto di morte.

Ma che colpa abbiamo noi?! Mi viene da esclamare davanti a questi tre sacrifici. Essi danno forza alla mia solitudine, ma certo non riescono a tagliare il nodo di ciò che ho chiamato peccato originale del patriarcato. Anzi, mentre ne confermano la potenza, mi fanno sentire in scacco: immobile come davanti ai molti bivi da cui è passata la mia scomodità. Che possa almeno trasformare il mio ristagno in una epoché?

Subito mi torna alla memoria un luogo ricorrente negli scritti delle donne. Si tratta di quel ponte definito da Maria Zambrano figura innamorante, figura terapeutica che consente l’elevazione dal flusso della propria esistenza e la sospensione dallo stato di crisi.[15] Si tratta di quello stesso ponte da cui Virginia Woolf guarda l’affaccendarsi degli uomini nei luoghi del potere politico, economico e religioso. Alla scrittrice il segretario di un’associazione antifascista aveva chiesto di fare qualcosa per scongiurare la guerra mondiale ormai alle porte (siamo nel 1933): domanda insolita da rivolgere a una donna di quell’epoca, insolita perché politica. Questa è la risposta, in sospeso sul Tamigi:

Ci troviamo qui su questo ponte per porci delle domande. E sono domande molto importanti; e abbiamo pochissimo tempo per trovare la risposta. Le domande che dobbiamo porci intorno a quel corteo e a cui dobbiamo trovare una risposta in questo momento di transizione sono così importanti da cambiare, forse, la vita di tutti gli uomini e di tutte le donne, per sempre. Questo infatti dobbiamo domandarci senza indugi: abbiamo voglia di unirci a quel corteo, oppure no? A quali condizioni ci uniremo ad esso? E, soprattutto, dove ci conduce il corteo dei figli degli uomini colti?[16]

 

Forse, anche per gli uomini è giunto il momento di prendere coraggio e salire sul ponte: dobbiamo essere lì per porci domande simili, ma ancor più radicali, se possibile. Non tanto se vogliamo o meno, né a quali condizioni, ma: esiste per noi la possibilità di seguire il corteo delle donne colte? Abbiamo o no questa opportunità? Oggi come allora, la risposta è di importanza capitale, tanto da poter cambiare per sempre la vita di tutti.

Lascerò alle donne di trovare in cosa la loro pratica cambierà, se sapremo rispondere bene. Per parte nostra, credo sia in gioco la possibilità di svincolarci dalle estetiche che dominano l’immaginario maschile nell’epoca del tramonto del patriarcato. Sarò semplicistico, ma consapevole di esserlo. Sono due, a mio parere, i modi con cui gli uomini vengono rappresentati e si rappresentano al giorno d’oggi. Il maschio Muccino è mediocre e vigliacco ad un tempo. Il suo sviluppo è segnato da una crisi perenne, ma inconsistente perché svuotata di ogni contenuto profondo. Giovincelli un po’ riottosi e un po’ insicuri vivono squallidi riti di passaggio travestiti da rivoluzione; trentenni fedifraghi attendono la svolta, il colpaccio, ma sono sempre pronti al fallimento; mentre i signori di mezza età cercano di continuo emozioni nuove per scongiurare la noia e l’andropausa. Una banalità del male che lascia spazio alla seconda, più inquietante figura di questa fenomenologia. L’alternativa alla crisi consiste nel ripetere coattivamente i valori ed i gesti del patriarcato, sebbene questi non riescano più a trovare conferma così sicura nell’esperienza del mondo. E’ la risposta ottusa del vero macho, pronto a trasformare le sue attenzioni da corteggiatore protettivo in volontà di dominio. Cosicché, la violenza rigettata dall’ordine Simbolico in affanno, riemerge drammaticamente sul piano del Reale: la meccanica allucinatoria è nota.

Poco attratto dall’atteggiamento depressivo dei mucciniani almeno quanto dai modi schizofrenici del machismo, preferisco fare tabula rasa e rimanere sul ponte: attendo e mi chiedo se sia possibile agire sull’ordine simbolico fino a rinnovarlo. Sono certo però che non basterà contemplare la corrente del fiume, sperando che prima o poi il cadavere del patriarcato mi galleggi di fianco. Durante il tempo dell’attesa devo fare pratica di relazione: me lo insegna Annarosa Buttarelli.

L’empatia [di origine femminile] si regge sulla fiducia che nell’incontro, attraverso l’esperienza e il sentire, in relazione parlante con altre/i, si crei quel vuoto di sapere di noi che, grazie al possibile scambio con l’altro, con l’altra ci fa prendere, per differenza, una posizione. Dare credito alla possibilità della relazione, e dipenderne, sorregge anche la praticabilità del movimento che crea tabula rasa dalla cultura codificata.[17]

 

Il problema diventa: chi far salire assieme a me sul ponte? A chi tributare così tanta fiducia? Se seguo il filo del discorso so di non poter chiamare con me nessuna delle pensatrici che conosco, né nessuno dei miei amici immaginari, tutti morti nel tentativo di infrangere la legge del Padre. Chi mi rimane da chiamare allora? Poiché, come abbiamo visto, il patriarcato si manifesta in forma paradossale, forse il suo nodo va reciso con mossa altrettanto paradossale, con un colpo di scena. Sospeso sull’acqua, trovo ad aspettarmi chi mai mi sarei aspettato di trovare fino a pochi giorni fa. Intravedo all’altro capo del ponte la figura di mio padre: mi rendo conto di non avergli reso giustizia e verità a sufficienza. E’ vero ciò che ho scritto di lui nelle pagine precedenti solo se guardiamo agli ambiti in cui “tradizionalmente” si confrontano un padre e un figlio. Ma c’è molto altro da dire e da considerare. Non pronuncerò esattamente una palinodia, ma dovrò formulare un nuovo discorso che completi quello vecchio. Partirò da alcuni aneddoti.

Io non posso ricordarmelo, ma mi è stato raccontato di quando mio padre mi guardava, chinato sulla culla: aveva spesso le lacrime agli occhi dalla gioia, tanto che mia madre per scherzo gli aveva diagnosticato la sindrome da depressione post-partum. Per il primo mese della mia vita poi, volle ostinatamente assistere a tutte le poppate senza perdersene una, nonostante lavorasse molto durante il giorno. Queste cose però forse le farebbe ogni buon padre. Ciò che veramente mi sorprende è l’impegno che sempre ha messo per arrivare a sfiorare i piani su cui mi muovo, eterogenei ai suoi: un tentativo continuo di mediazione senza assorbimento. Conoscendo bene il mio odio per il calcio, quand’ero piccolo ha inventato un gioco con la palla (il palcio) che aveva regole condivise da me e lui soltanto. Anche le fiabe che mi raccontava non erano quelle solite, popolate da impavidi principi e donzelle in sospirante attesa. Mi leggeva Il piccolo principe, oppure inventava giorno per giorno le avventure di fata Pasticcina e dell’inventore pazzo. Il mio incontro con il pensiero della differenza sessuale credo sia passato anche da qui. Lo stesso atteggiamento lo ritrovo oggi, quando non capisce nulla dei miei discorsi sulla filosofia, ma mi ringrazia per aver cercato lo stesso di condividerli con lui. Se è vero che non ho imparato nulla di quello che i figli normalmente imparano dai loro padri, posso dire di aver ricevuto da lui altro, che io considero più prezioso.

 

Ho imparato da una donna a fare esperienza della tabula rasa come relazione sorgiva, «fedeltà sia a un sentire che a un sapere che non trovano nei codici attestati il loro riscontro e ne eccederanno sempre».[18] Ho fatto a mia volta tabula rasa con la Legge del Padre e ho ritrovato mio padre: un padre non per forza patriarcale. Sono riuscito finalmente a schiodarmi, restando fedele al pensiero della differenza: prima di tutto perché ho pensato la mia differenza e l’ho pensata come relazione.[19] Finalmente! Mi sembra di essere Cartesio quando trova nel cogito un’idea chiara e distinta su cui fondare il resto del pensiero. Ho perfino la presunzione di essere più sicuro di lui perché non sono da solo a star fermo sul fondamento, ma rimango in contatto con mio padre, il quale conferma la verità di ciò che insieme stiamo vivendo.

Non faccio a tempo ad esultare che subito si fa avanti un’obiezione potente. Jacques Lacan potrebbe dirmi che quella che sto descrivendo è una relazione vissuta sul piano psichico dell’Immaginario, ma non è lì che si gioca la partita con la Legge paterna e dunque col patriarcato. Il carattere duale dell’esperienza che io e mio padre abbiamo costruito relega nella singolarità la nostra particolare relazione, la quale per questo non può farsi comunicabile: la sua positività corre il rischio di rimanere un caso, di non farsi mai tradizione.

La possibilità di accedere al linguaggio avviene all’interno dell’ordine Simbolico, al quale si approda attraverso il superamento del complesso edipico. Finché non produrrò lo slittamento sul Simbolico insomma, la relazione con mio padre sarà privata, particolare, muta: non riuscirà a farsi valere come legge, lasciando intatta quella parricida precedente. Il problema è che per Lacan i due piani sono nettamente disgiunti: non possono comunicare e hanno funzioni differenti.

L’Immaginario è l’effetto di un processo di identificazioni che porta il neonato tra i sei e i diciotto mesi di vita a distinguere l’Io dagli oggetti esterni e quindi ad avere coscienza. Durante quella che Lacan chiama fase dello specchio, l’individuo ordina le percezioni che ha del suo corpo in una totalità morfologica unitaria. La sua evoluzione è schematizzabile in tre fasi. Dapprima la corporeità viene concepita dalla psiche infantile come frammentaria: a ciò si unisce un iniziale stato di insufficienza motoria. La scarsa motilità e l’angoscioso senso di carenza da essa derivato innescano dei meccanismi di anticipazione per i quali il bambino assume a livello immaginario il controllo del corpo. L’anticipazione è resa possibile dalla graduale identificazione con la propria immagine riflessa oppure con un altro essere umano, la cui figura viene percepita come unitaria. In un primo tempo le percezioni vengono organizzate attorno a un centro, una parte anatomica che sineddochicamente viene identificata con la totalità corporea: questo primo assetto viene chiamato da Lacan forma ortopedica. L’Io viene infine prodotto come risultato del sedimentarsi delle identificazioni. Perché diventi cosciente e possa negoziare il confine tra interno ed esterno, il soggetto deve alienarsi nella sua imago.[20]

Se nell’Immaginario abbiamo a che fare con un corpo davanti allo specchio, nel Simbolico il corpo è posto davanti alla legge. Il divieto paterno di incesto (la legge del Padre) fonda il principio di differenziazione che sottende tanto al linguaggio quanto all’assunzione di posizioni sessuate. La medesima radice di significazione e sessuazione è sintetizzata nella teoria lacaniana dalla doppia funzione del fallo: da un lato significante dei significanti, dall’altro elemento determinante l’identità maschile (avere il fallo) e femminile (essere il fallo).[21] Il Simbolico dunque delimita il campo del significabile, mentre l’Immaginario stabilisce le condizioni di conoscibilità del mondo.

Uno dei tentativi a mio parere più originali di mettere in discussione la dicotomia ferrea Immaginario/Simbolico è la proposta teorica avanzata da Judith Butler.[22] Secondo la filosofa statunitense, la priorità concessa al fallo maschile nei processi di significazione sarebbe un postulato che nasconde la vera natura di ciò che si pretende come significante dei significanti. Butler nota la simmetria tra il fallo, attorno a cui si formano le catene significanti, e la funzione della parte corporea che per sineddoche struttura l’anatomia immaginaria. Osservando questa simmetria, si può arrivare a dire che il corpo frammentato davanti allo specchio è anche un corpo senza fallo, castrato simbolicamente. Attraverso l’assunzione del controllo, ottenuto con il formarsi dell’io nell’immagine speculare, quel corpo giunge allora ad assumere anche il fallo. Ciò che c’è di problematico nella doppia assunzione consiste nello spiegare per quale motivo il fallo come origine della significazione debba pertenere alla posizione maschile. Qui Butler opera il rovesciamento di Lacan: lo psicanalista misconoscerebbe infatti che nella sua concezione del fallo agiscano i meccanismi di trasfigurazione propri alla produzione immaginaria. Il pene posseduto dal maschio è eletto a centro di organizzazione immaginario dell’anatomia frammentata; per negare (in senso psicanalitico) la sua parzialità, la sua modesta dimensione e infine la sua sostituibilità, esso viene trasvalutato fino ad elevarsi al ruolo di significante privilegiato. Il fallo non è affatto “la postulata origine della significazione”, ma l’effetto di una “catena significante soppressa in maniera sommaria”.[23] In altri termini, secondo Butler il fallo dipenderebbe dal pene e non sarebbe altro che un suo effetto immaginario.

Se il risultato di questa critica è una ritrovata plasticità, mobilità e persino trasferibilità del fallo, bisogna aggiungere che a morfologie immaginarie eterogenee devono corrispondere diversi modi di gestire il ruolo del Padre e di collocarsi entro esso. La stessa impossibilità di controllare pienamente le catene significanti ha per conseguenza che nessun individuo singolare possa occupare completamente la posizione del Padre. Sono questi spazi vuoti, questi riempimenti falliti che devono essere portati alla luce per ridefinire la mascolinità al di fuori di un orizzonte patriarcale: essi devono essere sfruttati come luoghi di battesimo e di performatività. Su di essi si devono innestare nuove genealogie che garantiscano loro una stabilità storica.

Provo a spiegarmi meglio. Sostengo che ripensare la paternità in senso non patriarcale significhi compiere una mossa complementare a quella auspicata da Diana Sartori in La tentazione del bene.[24] La tesi da cui il saggio parte è che si debba ripensare il nesso tra la relazione con la madre, relazione che dà vita e parola, dunque libertà, dal contenuto specifico della relazione con la propria madre, di cui deve essere riconosciuto e messo al lavoro il negativo. Il legame e il legato con la madre sono distinti come la trascendenza che dona possibilità all’immanenza, ma devono essere concepiti insieme perché la trascendenza non si dà che nell’immanenza. Una simile strategia impedisce nello stesso tempo di assumere due atteggiamenti ricorrenti nella teoria femminista. L’uno enfatizza la positività pura della Madre fino a ipostatizzarla in un’icona incapace di reggere il confronto con l’esperienza e col male che essa si porta dietro; l’altro vede nel dipendere dalla madre la soffocante imposizione di una normatività femminile. Concependo la distinzione di legame e legato nella sua unità invece, si riconosce il negativo che necessariamente esiste in ogni contingenza, ma gli si permette di lavorare perché lo si ancora alla relazione in quanto tale, positiva e trascendente. Scrive Sartori:

il legame si dà mescolato al legato, quest’ultimo non è l’essenziale, è contingente, ma è essenziale che si dia insieme a quel che trascende questa sua determinata contingenza. Come la lingua si impara attraverso determinate parole e frasi, quelle e non altre, ma non è la somma di quelle frasi dette e le trascende. Non c’è  altro modo se non da questo.[25]

 

Che ne è invece del nodo che tutti ci lega alla relazione col Padre? Pensando al mio, la prima cosa che mi viene da dire è che il legame per fortuna non è tutto: esiste anche un legato, un contingente che sfugge alla Legge perché troppo minuto, particolare. Se è vero che la relazione tra padri e figli ha come condizione il trascendentale parricidio, origine e conferma del patriarcato, nessun vero padre riesce a essere completamente, in ogni momento, patriarcale. E’ da questo contingente che si deve partire a ripensare la mascolinità. Esso e nient’altro può fare breccia e crepare l’ordine simbolico, perché la sua forma glielo consente: pervasivo, ma molteplice e moltiplicato, si insinua in ogni esperienza senza garanzie di controllabilità. Di questo contingente il pensiero della differenza maschile deve tracciare una storia, in modo da farlo diventare coagulo e tradizione, rituale imprevisto e performativo felice.

Che la figura paterna sia indecidibile nella sua doppiezza lo troviamo inscritto perfino nella tradizione cristiana. Accanto al Dio Padre, maiuscolo e onnipotente, troviamo Giuseppe, falegname di Nazaret anche lui padre di Gesù, però con la p minuscola questa volta. Il Vangelo di Matteo ce lo racconta mentre compie un gesto silenzioso, ma eclatante per la società in cui si trova a vivere. Nel momento in cui apprende che Maria aspetta un figlio, nessun angelo è venuto a fargli visita per garantirgli che quel concepimento non è il frutto di un adulterio. Secondo la legge, egli dovrebbe denunciare la sposa, ma Giuseppe decide di fidarsi di lei e ascoltare le sue parole.

E’ un padre “secondo libertà, senza appropriazione o possesso”[26] che ritrovo anche ne I demoni, di Fëdor Dostoevskij.[27] Sebbene nel romanzo la scena della natività sia ricalcata con amara ironia, Šatov abbandona di colpo le credenze nichiliste nel momento in cui si confronta con la sua paternità. Anche qui, il ruolo del padre è fondato sull’accoglienza incondizionata della nascita come novità vitale: a differenza di Giuseppe, il personaggio dostoevskiano sa per certo che la compagna è adultera.

Rassicurato dalla presenza, in letteratura, di figure decentrate rispetto all’economia patriarcale, provo ad addentrarmi nel campo più ostile della tradizione filosofica. Ci sarà pure qualche pensatore che si sia sottratto alla tentazione parricida! Almeno uno credo di averlo nominato all’inizio di questo articolo, Michel Foucault, il quale senza esigere mai di costruire un sistema, ha indagato le condizioni di possibilità sottese ai concetti che si pretendono universali. Vicino a lui per provenienza teorica e geografica, Gilles Deleuze non si è preoccupato di confutare i filosofi a cui dedicava le sue monografie eclettiche, ma si è lasciato spingere dalla forza del loro pensiero.[28] Più indietro nel tempo trovo Meister Eckhart, che ha dialogato con le mistiche della sua epoca.

Non sono certo riuscito a portare un’intera stirpe sul mio ponte, ma mi sento meno solo e meno scomodo. Di sicuro, quelli che ho nominato non riescono insieme a formare un corteo. Non so nemmeno se essi possano già dirsi tradizione. So però che sono emersioni del pensiero: sono emergenze.

[1]              Parlo di Diana Sartori, Ma chi te lo fa fare?, in Diotima, Approfittare dell’assenza. Punti di avvistamento sulla tradizione, Liguori, Napoli 2002, pp. 213-223.

[2]              Wanda Tommasi, Di madre in figlia, in Diotima, Approfittare dell’assenza, op. cit., pp. 7-25

[3]              Ivi, p. 12.

[4]              Ivi, p. 7.

[5]              Diana Sartori, La tentazione del bene, in Diotima, La magica forza del negativo, Liguori, Napoli 2005, pp. 9-33.

[6]              Come cercherò di spiegare in seguito, non sto cercando di negare il valore dell’élenchos (cosa che mi porterebbe chiaramente a contraddizione), ma di sostenere che il lavoro filosofico non si ferma certo in quel punto, né da lì si origina.

[7]              M. Heidegger, Costruire, abitare, pensare, in Saggi e Discorsi, a cura di Gianni Vattimo, Mursia, Milano 1976, pp. 96-108.

[8]              M. Foucault, Polemica, politica e problematizzazioni, in Archivio Foucault 3. 1978-1985: estetica dell’esistenza, etica, politica, a cura di Alessandro Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, p. 242. Molti hanno invece fondato la loro concezione della filosofia sulla figura del pòlemos e della violenza, cfr. U. Curi,  Polemos. Filosofia come guerra, Boringhieri, Torino 2000.

[9]              Cfr. Annarosa Buttarelli, Tabula rasa, in Diotima, Approfittare dell’assenza, op. cit., p. 152.

[10]            Mi riferisco in particolare a Diana Sartori, Come fare filosofia e vivere felici? in Per una filosofia free-lance, Tellus. Rivista italiana di geofilosofia n. 23, 2001. Ma anche alla presentazione che fa di se stessa sul sito www.diotimafilosofe.it e a Scarti di libertà, relazione tenuta al Grande Seminario di Diotima 2006.

[11]            Cfr. Adriana Cavarero, Nonostante Platone, Editori Riuniti, Roma, 1990.

[12]            Forse azzardo. Mentre nella saga dei Labdacidi sofoclea i termini di tensione sono il ghènos e la pòlis, in Romeo e Giulietta la famiglia invade lo spazio del potere politico, contrapponendosi al desiderio dell’individuo: un tema della modernità.

[13]            Catullo, I canti, carme 63, tr. it. di Enzo Mandruzzato, Bur, Milano 2004. Cfr. anche G. Deleuze, Il freddo e il crudele, SE, Milano 1996. Il filosofo francese legge il mito come un ritorno sotto il segno della Madre.

[14]            Sofocle, Antigone, tr. it. di Maria Grazia Ciani in Antigone. Variazioni sul mito, Marsilio,Venezia 2000.

[15]            Rinvio all’articolo La figura del ponte nella filosofia di Maria Zambrano di Silvia Garonzi, un’altra delle maestre che ho conosciuto di recente e a cui devo infinita gratitudine. Il testo è rintracciabile sul sito www.semi-filosofici.it

[16]            Virginia Woolf, Le tre ghinee, tr. it. di Adriana Bottini, Feltrinelli, Milano 1992, pp. 91-92. Il segretario contatta la scrittrice nel 1933, ma la lunga lettera di risposta verrà terminata solo all’inizio del 1938.

[17]            Annarosa Buttarelli, Tabula rasa, op.cit., p. 153.

[18]            Ivi, p. 148.

[19]            Usando l’aggettivo possessivo, non intendo dire né che quella differenza mi appartenga come proprietà né che riguardi me soltanto. Voglio solo indicare che per rispondere con fedeltà al femminismo sia necessario tematizzare un pensiero della differenza maschile.

[20]            J. Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, in Scritti, I, a cura di G. B. Contri, Einaudi 2002, pp. 87-94. Faccio notare che ho collocato la relazione con mio padre sul piano dell’Immaginario perché essa è fondata su un riconoscimento cosciente continuamente negoziato.

[21]            Mi scuso per la troppa concisione e rinvio a J. Lacan, La significazione del fallo: Die Bedeutung des Phallus, in Scritti, II, op. cit., pp. 682-693.

[22]            Si veda in particolare Judith Butler, Il fallo lesbico e l’immaginario morfologico in Corpi che contano. I limiti discorsivi del sesso, tr. it. di Simona Capelli, Feltrinelli, Milano 1996, pp. 51-84.

[23]            Ivi, p. 75.

[24]            Diana Sartori, La tentazione del bene, op. cit.

[25]            Ivi, p. 29.

[26]            Francesca Doria, Il lievito della libertà in Diotima, Approfittare dell’assenza, op. cit., p. 48.

[27]            F. Dostoevskij, I demoni, tr. it. di Gianlorenzo Pacini, Feltrinelli, Milano 2000.

[28]            Cfr. L’eredità di Deleuze in Rosi Braidotti, In metamorfosi. Verso una teoria materialista del divenire, a cura di Maria Nadotti, Feltrinelli, Milano 2003, p. 83-88.