diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 14 – 2016

Connessioni Decoloniali

Da dove veniamo?[1]  

In questo  percorso mi sono lasciata portare dalle parole ma anche dalle immagini, accostate in modo istintivo, ci sono immagini che provengono da diverse epoche, dall’arte e dal mondo sacro, ma che mi hanno toccata. Cercherò di seguirle, non con la pretesa di capire, di dominare con la mente, ma cercando di aprire delle domande.

 

 

 

 

“La paura muove il mondo, assieme all’ amore”, scrive Louise Bourgoise.

Di fronte alle sue gabbie in cui giacciono cadaveri rimasticati di vecchie esperienze siamo costrette a guardare le nostre gabbie, qual è il nostro pane quotidiano.

 

 

 

 

Cosa cerchiamo nello specchio?

Eppure, a tratti, è possibile uscire dalla ripetizione, ritrovare un’apertura, un pensiero aurorale.

Angela Putino ne “La signora della notte stellata” parla di “sentire aurorale,nota come il sentire sia un’acquisizione da rinnovare ogni giorno, per non rinunciare a sé, perché il “concetto” sia vicino al “concepire, al fare di mettere al mondo”.

Cercherò questo tipo di pensiero/sentire aurorale.

 

A tratti, possiamo sottrarci alla trasmissione della paura, scegliere il rispecchiamento di sé.

 

La dama e l’unicorno, ciclo di arazzi fiamminghi del XV sec.

 

L’essere umano non è già pronto a vivere alla nascita, la costruzione  dell’identità è un lungo viaggio, non sappiamo chi siamo e non vediamo di noi ciò che è evidente agli altri.

Il linguaggio sociale ci dice cos’è essere una donna, un uomo, ci assegna un posto. Donna in carriera, clandestina, mamma, “il lavoro di una donna, da quando si alza a quando va a letto, è pesante come una giornata di guerra, peggio della giornata lavorativa di un uomo, perché lei deve inventarsi un orario conforme a quello degli altri, quelli della famiglia e quelli delle istituzioni esterne…Nel 1350, per esempio, lei ha vent’anni, trenta, quarant’anni, non di più. Solo raramente supera quell’età. Lei ha sempre fame. Paura…Siamo fatte di freddo, paura, desiderio. Ci bruciavano. E ancora ci uccidono…”.

Veniamo anche da questa storia.

Le idee che non sappiamo di avere ci posseggono, perché modellano la realtà a nostra insaputa.

Ci facciamo portare per anni da emozioni che magari sono di altri.

Il nostro corpo fa sempre gli stessi gesti.

Siamo dentro a due catene di trasmissione: una trasmissione di amore, di conoscenza, e una trasmissione di paura, schiavitù, che si ripete nell’inconsapevolezza.

Oggi in occidente la schiavitù non deve essere vista, non ci deve toccare. E’ un incidente, è stata abolita storicamente, è ai margini,  ai confini. La riconosciamo in noi dalla vergogna. Lo sanno bene le donne migranti che tentano di ritagliare un posto per sé o più spesso per i figli, che a scuola stanno muti o disturbano, o diventano buoni traduttori ed esecutori dei nuovi linguaggi, e si vergognano delle proprie madri.

Bisogna dimenticare la provenienza dal non umano, dalla violenza.

Ma c’è l’altra trasmissione, che viene dalla conoscenza, la trovo nelle parole di una schiava delle Antille alla figlia: “Dì ai tuoi figli che io, l’antenata schiava, ci sono, e trova i rituali per onorarci. Quando dite di non avere più antenati né riti state attenti: stanno facendo di voi degli schiavi”.

 

 

Bisogna lasciare spazio anche alla rappresentazione della nostra grandezza, per poter guardare alla nostra realtà di ogni giorno. E a volte bisogna andare lontano per trovare ciò che è più proprio.

Ricordo lo shock che mi ha provocato la rappresentazione del sesso femminile come immagine divina, in un corso di Letizia Comba in questa università, e riprenderò le sue domande sul testo di Ghiti Thadani, che potete trovare nel libro di Diotima, sempre  “Il cielo stellato dentro di noi”.

Cosa significa una rappresentazione del divino attraverso un’immagine femminile? Quali livelli tocca in una donna? “Non eravamo abituate a poterci identificare con l’assoluto femminile. L’assoluto era maschile, altro nel sesso,e per identificarsi bisognava negarsi. O proiettare. Altrimenti bisogna abbandonare la psicologia per l’Alterità assoluta”.

 

 

A Casa di Ramìa abbiamo lavorato un anno sul tema dell’hijab, del velo, in un gruppo di donne provenienti da diversi paesi dell’area mediterranea. Cosa è da proteggere, cosa è sacro per noi?

Il confronto ha permesso a noi italiane di vedere una delle nostre grandi gabbie culturali: il laicismo: la difficoltà estrema, quasi tabù sul tema del sacro, della relazione con il divino.

 

Alain Danielou nel suo studio sullo sivaismo, la religione di Kali, scrive che non c’è altra religione naturale se non conformarsi a ciò che si è, e che questa radice della religione, che lega il sacro all’impuro e allo sconosciuto, è da sempre in conflitto con la religione delle città, che “innalza le leggi umane ad atti sacri”.

Ma, come dice Nadie Boulanger, “per essere sé stessi bisogna già essere geniali”.

 

Il tantra  è un culto tramandato dalle sette induiste dal 200 d.C. ad oggi, si esprime in atti di culto più che in testi, anche se ci sono anche dei testi sanscriti. Si tratta di un percorso per arrivare a essere se stessi, infatti ci sono delle pratiche attorno alle immagini, che vanno riprodotte, ornate, mantenute in luoghi a parte, per onorare la propria divinità.

La divinità a cui si è devoti si trova nel proprio cuore, non è quindi scelta, ma va riconosciuta e venerata come tramanda la tradizione; è un fatto che la dea più venerata è Kali-Durga, la dea oscura, femminile come l’energia (sakti) nella quale l’essere indifferenziato si suddivide. Gli studiosi hanno parlato di un pantheon induista con una trinità maschile, senza render conto di questo, eppure in India la divinità femminile è ancor oggi largamente venerata secondo una tradizione che data dalla cultura di Harappa del 3000 a.C.e da tempi più remoti.

 

 

I culti della dea madre hanno rappresentato le credenze religiose dall’India in tempi preistorici così come dell’Europa e del Mediterraneo, analoga è anche la cancellazione delle divinità femminili nei testi religiosi, la reale differenza sta nel fatto che il sistema delle caste ha permesso la conservazione di culti che in Europa sono stati perseguitati con l’Inquisizione.

 

 

Nell’India centrale gli archeologi parlano di una serie di triangoli concentrici per il culto del principio femminile sakti nel paleolitico superiore. Localmente questo monumento è venerato come il tempio di Kalika Mai (Madre Kali).

 

                                          Assemblea delle dee serpente, Cucuteni (Gimbutas)

 

 

Riconosciamo in questo simbolo la grande madre, conosciuta nel mediterraneo sotto vari nomi

Demetra, Cerere, Inanna, Ishtar, Astarte, Artemide.

Dal Kashmir all’India meridionale la potenza attiva dell’universo è venerata in una molteplicità di monumenti che datano dall 8.000 al 2.000 a.C.

IL TERMINE SACRO CHE INDICA UN SANTUARIO è GARBHA-GRHA, Camera-utero.

Ricorda le stanze del parto dell’europa neolitica.

 

Dea uccello (Neolitico, Gimbutas)

 

 

 

 

(Carol Rama) Scopre il potere dell’immagine per controllare

Kali come figura non è un prodotto dei brahamani, del ceto colto e ricco. E’ troppo situata sulla soglia tra il puro e l’impuro, tra il gaudente e il violento. Kali è un simbolo offerto, in una fase storica, alla possibilità di redenzione spirituale di gente povera, oppressi e delinquenti, gente ai limiti del tempio. Nella visione indiana ci sono 4 epoche storiche, in progressiva decadenza, l’ultima è l’epoca di Kali, che inizia con la storia raccontata nel Mahabharata, della guerra di distruzione della terra scatenata da una partita a dadiNel Kalijuga, l’era del colpo ai dadi perdente, i perdenti sono nella posizione giusta per un percorso spirituale che richiede la trasgressione dal dharma.

E siamo chiaramente nel Kalijuga!

Da ragazza non capivo come i nostri padri avessero fatto a non vedere lo sterminio di ebrei, zingari e dissidenti, ora lo so: lo vedo nella reazione dell’opinione pubblica europea di fronte alla continuazione di una geopolitica di sterminio. Quello che i sistemi di potere hanno sperimentato molto bene allora è il controllo dell’immaginario collettivo attraverso i mezzi di comunicazione di massa, ora sanno come desensibilizzare dando il massimo di informazione.

Di fronte all’intollerabile di popoli spinti ai bordi dell’inumano bisogna difendersi. La cultura dei diritti sancisce la disumanità di chi non li ha. E noi, per non essere considerati fuori dall’umano, siamo disposte a non sentire quello che sentiamo.

Per opporsi, bisogna ritrovare la propria capacità attiva di vedere immagini, digiunare dalle immagini imposte, chiederci da dove viene l’attrazione per un’immagine o un’altra.

Riprendere il proprio potere immaginale, come insegnano le pratiche tantriche, cercare sé nello specchio, cercare le tracce delle proprie antenate.

  1. Weil dice che la violenza è far sognare ad altri il proprio sogno…questo è possibile solo quando la gente smette di sognare i propri.

Kali è stata per me un’immagine impensata, spiazzante, che scuote dal torpore.

E’ in qualche modo equivalente di Siva, su cui danza; entrambi portano un’energia che ha a che vedere con l’assoluto, col desiderio, col furore e la distruzione. Non si avvicina il desiderio senza avvicinare anche l’angoscia. Abita nei crematori, è nera, nuda, i capelli scarmigliati, a volte bellissima e terribile, a volte scheletrica, mostra la lingua rossa, il gesto di una mano dissolve la paura, con un’altra esorta alla forza spirituale.

Tanto più forte per noi quest’immagine perché nella nostra religione non esiste una rappresentazione divina della distruttività femminile. La collera di Dio può essere tremenda, ma il divino femminile è Maria, dea bianca, purificazione e passività.

E’ allora difficile per una donna accedere alla propria aggressività, avvicinare l’oscuro, la ferocia necessaria nel processo vitale. O un altro aspetto di ciò è, per certe donne, o dopo un certo momento della vita, la rabbia che diventa permanente, colora ogni cosa, non permette più di nutrire altre parti di sé che vogliono gioia, delicatezza, quiete.

Ma la danza di Kali esprime una distruttività gioiosa e impersonale.

Kali Chinnamasta. La dea decide di perdere la testa, e abbandonare pensieri, giudizi illusioni nell’estasi amorosa e liberare così energia e nutrimento per le tre parti costituenti il sé integrale.

 

 

Una rappresentazione più fluida dei rapporti tra chiaro e scuro sembra essere quella portata dai testi più antichi, i RigVeda.

Qui si parla di Aurora (Usha) come la “luminosa ombra cosciente” , in effetti l’aurora è il punto di passaggio tra l’oscurità e la luce. La parte più antica dei Rig Veda parla di Aurora (Usha), la parte più recente narra la violazione di Usha e la sua trasformazione in Kali.

Leggerò il commento di Ghiti Thadani, studiosa indiana di sanscrito, archeologia e mitologia indiana. La sua traduzione dei RigVeda svela le divinità femminili sotto le traduzioni abitualmente neutrali del testo. Kali le interessa come immagine potente, antipatriarcale e come lato del femminile nascosto che incarna il tempo, la morte, il desiderio. In questo senso è anche un esempio di come l’immagine di Kali sia stata avvicinata nella nostra epoca, interrogata dalle domande suscitate dai movimenti politici delle donne.

E’ anche un esempio di come far vivere le immagini della tradizione, a partire dalle nostre domande.

 

Ecco la luminosa ombra cosciente

Riflessa allo specchio

E attraverso la riflessione, lo splendore dei tre sentieri

Colei che si rinnova perpetuamente

(Devi Upanishas)

 

La luminosa ombra! Il bianco-nero, cerca lo specchio e diventa già tre, diventa energia che si rinnova all’infinito, che fugge ogni categoria.

 

Allora una donna meravigliosa emerse dall’oceano di Kali

La meravigliosa forma della donna

La portatrice della prima parte

(Kali Khand, 1.30.37)

 

Commenta G. Thadani:”Questo mito lega il motivo della riflessione al sé, che diventa la base della creazione. La forza generatrice primaria diventa il concetto di sé…Il gioco di riflessione dell’immagine rispecchiata e dell’ombra diventa il mezzo di percezione lungo il sentiero che porta alla coscienza”.

 

Ecco dunque la più densa luce-oscurità, il mobile cammino,

la fenditura che porta alla quieta profondità…

L’espansiva quiete, il meraviglioso quadro cangiante di Usha,

il sé dei radiosi sentieri,

conduce oltre la soglia dell’oscura dimora

con fiamme pure e brillanti

(RV 10.129.3)

 

La luce emerge dall’oscurità come il movimento dalla quiete. Uno non nega l’altro, sono processi di trasformazione e differenziazione. Rappresentano diversi stati di essere, soltanto quando vengono implicate in una divisione binaria, luce e ombra divengono opposte. Tra forze opposte occorre stabilire un rapporto, questa operazione costituisce di per sé la terza forza.

L’unità, l’Assoluto, crea l’energia polarizzata prendendo consapevolezza di sé. L’uno diventa contemporaneamente due e tre”.

 

Questo tre-in-uno corrisponde naturalmente alla trinità cristiana e alle trinità divine di altre culture, come Brahma-Siva-Visnu.

 

Nei RigVeda Usha è parte di una triade: Dyava-prithvi, in cui dyava è una forma duale femminile, corrispondente all’aurora-crepuscolo o stella del mattino/stella della sera e prithvi è la terra.

 

L’occhio gioioso brillante luce/giorno

la figlia lodata

 

si manifesti la meravigliosa alla madre che si avvicina

come donna che mostra il suo corpo

Nella concezione della dyava-prithvi la triade viene proposta come base della parentela cosmica. Le madri duali non sono semplicemente una coppia, ma si riferiscono a un processo generativo capace di infiniti cicli di fertilità…lo spazio dello sguardo rinvia al motivo di Usha come occhio che si espande (RV 1.29.9) e l’occhio, nel suo significato primitivo, si riferisce alla yoni e alla matrice: il termine è ambak che significa occhio ma anche madre. Questo motivo evoca dunque il terzo occhio e le fluide relazioni tra il due e il tre.”

 

 

 

Le sette sono fuse nelle ruote del carro,

una giumenta guida i sette nomi;

i tre raggi della ruota indistruttibile

Non possono mai essere costretti

Essi contengono tutti i mondi

(Rv 1.164.2)

 

Sette sorelle e rosse fiamme

Emergono ruggendo dalle fauci,

E manifestano il libido antico, l’inter-spazio,

Il fluido della cavena inconoscibile

(RV 10.5.5)

 

Le madri ushas, le sette vibrazioni

(RV 4.2.15)

 

Madri come linguaggi

(RV 3.7.1)

 

Sette frontiere o soglie

Il fuoco interno descritto come fulcro a cui si può accedere

reggendo l’ottima casa

sorreggendo gli incroci delle vie

 

Questo verso mi tocca molto, i RigVeda pongono in un unico verso le due dee che la cultura patriarcale pensa come opposte. Per i greci infatti colei che sorregge la casa è Estia, inviolabile e non rappresentabile, ed è la custode del fuoco sacro (equivalente per i Romani Vesta, dea del focolare) mentre colei che sorregge gli incroci delle vie è Ecate, la terrifica, che potrebbe corrispondere alla versione più tarda di Kali. Sulla divisione di queste due dee si basa la normatività sessuale, la divisione tra donne di casa e donne di strada, nella realtà sociale come in quella intrapsichica.

 

Ecate in una moneta greca, si noti la somiglianza con Kali

 

Ma se l’attenzione viene spostata all’interno, se cerchiamo noi nello specchio, questo verso che unisce Estia e Ecate ci dà un’indicazione preziosa e pratica: il fuoco interno, l’energia vibrante è il fulcro della vita, ci si può accedere, e questa possibilità permette di reggere la propria dimora, ovunque si sia, e di stare agli incroci, cioè nei luoghi più difficili di passaggio, la soglia tra la vita e la morte, la crisi di una trasformazione. In tempi di guerra, il pensiero non oppositivo è ancora più vitale, perché permette di stare sulla soglia e compiere la propria azione senza pensare di essere vincitori o vinti. In modo impersonale, come nella danza di Kali. Questo permette un pensiero/sentire che si rinnova ogni giorno, un pensiero aurorale, aperto all’ascolto.

 

 

Al risveglio, non sostiamo sui sogni della notte, siamo subito presi dal giorno che viene con i suoi bisogni e rappresentazioni, che svaniranno la notte seguente.

“La nostra vita procede secondo percorsi paralleli che si alternano ma si ignorano reciprocamente, attorcendosi nei due fili paralleli della vita- bianco e nero”.

Usha/Aurora ci parla della soglia tra paura e amore, tra dee bianche e dee nere, dell’attimo di contatto tra le parti. Forse possiamo sostare su queste due soglie, alba e tramonto, e ascoltare.

 

 

 

 

[1] Questo testo è stato presentato durante il convegno Connessioni Decoloniali a maggio 2016 presso l’università di Verona( http://connessionidecoloniali.tumblr.com/).