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per amore del mondo Numero 9 - 2010

Ho Letto

Christina Schües, Philosophie des Geborenseins

Christina Schües, Philosophie des Geborenseins
(Freiburg/Muenchen (Alber) 2008, p. 507.)

 

Un bambino ci è nato

Ormai lo sappiamo: la maggior parte dei “grandi pensatori” hanno dimenticato di riflettere sul nostra essere partoriti. Si sono concentrati sulla fine della vita, cioè sulla morte. Hanno percepito le persone umane come esseri mortali e ridotto la loro esistenza a una “essere per la morte” (Martin Heidegger).

In questo modo hanno perso per strada moltissime cose: la vivacità, la corporeità, la imprevedibilità degli avvenimenti futuri, le relazioni originari e durevoli, la genealogia femminile e il costante rinnovamento della vita comunitaria a causa di sorprendenti nuovi arrivi…

Ma è solo un primo passo: prendere atto con stupore di questo vuoto filosofico scoperto di recente. In seguito c’è bisogno, invece, di gente che ci spieghi in quale modo preciso si è occultato il fatto di essere nati da donna: in quale punto esatto si interrompono i ragionamenti? Cosa si sovrappone alla riflessione su questo inizio umano molto concreto? Poi si deve porre la domanda innovativa: come cambia la nostra auto percezione se riportiamo il nostro inizio, che è nel corpo di un’altra, nelle nostre riflessioni. Da quello che mi risulta tutte le persone sono nate da donna.

La filosofa Christina Schües ha cominciato a farlo. Da tanto tempo aspettavo questo libro e ora finalmente è uscito. Dà una risposta a molte domande ma apre contemporaneamente porte per ulteriori riflessioni comuni.

Fagocitamento – scarsa considerazione – dimenticanza

Esistono diversi modi di occultare la propria origine, come quella di tutte e tutti gli umani, nel grembo materno. Si può “sfruttarla come metafora” (17) come l’hanno fatto Platone e Friedrich Nietzsche, ai quali è dedicato il primo capitolo della ricerca di Christina Schües. Anche se storicamente a grande distanza temporale e rispetto alla considerazione della corporeità agli opposti, entrambi i pensieri prendono origine “da una spudorato utilizzo della metafora della gravidanza e del partorire” (93): nel suo famoso mito della caverna Platone si serve dell’avvenimento del parto per dimostrare la strada dell’uomo pensante che inizia con un accecamento per arrivare successivamente nell’alto regno delle idee. E mentre nomina la saggia sacerdotessa Diotima come prima insegnante del pensiero ma contemporaneamente come presenza sempre assente inventa in qualche modo una garante femminile per la trasmissione della fertilità femminile allo spirito maschile. Nietzsche a sua volta inventa l’uomo pensante ad essere la vera madre: con le doglie il suo Zarathustra partorisce se stesso come superuomo.

Durante l’illuminismo europeo (II cap.) è vero che si riconosce per la prima volta il fatto che tutte le persone sono nati uguali ma poi la casta dei filosofi si concentra subito sulla “autogenerazione del soggetto” (97): Solo con la seconda nascita, in quanto dotato di ragione, l’essere umano si inserisce nella comunità etica del genere umano, solo con l’educazione si raggiunge il vero sé (Rousseau), solo come cittadino (maschile: anche se la parola nazione deriva da nascere) viene propriamente messo al mondo. Per esempio Cartesio riduce i genitori biologici a un ruolo puramente fisiologico, il vero genitore diventa il padre eterno. Mentre Johann Gottlieb Fichte fa scomparire completamente l’essere nati da donna dietro un’autoaffermazione del soggetto razionale. Immanuel Kant almeno considera degno di nota il primo grido di un neonato: questo grido gli sembra la protesta contro l’inaccettabile, violenta, eteronoma nascita e la prima rivendicazione dell’autonomia. La successiva domanda come l’essere umano possa raggiungere e garantire nella sua vita l’autonomia e come possa depurare l’esperienza, l’interesse e i pregiudizi da impurità (da parto?) Kant ha dedicato, come è noto, tutta la sua attenzione.

La sorprendente concentrazione degli illuministi sulla “autogenesi”(166) dell’essere umano non resta però incontrastato: “ per quanto l’uomo immagina di creare tutto a partire da se stesso esso dipende però nello sviluppo delle sue capacità da altri” scrive per esempio Johann Gottfried Herder nel 1790. (pp.166)

Nel Ventesimo secolo gli esistenzialisti lottano contro la riduzione razionalistica della filosofia. Seguendo Martin Heidegger il compito è ora di fare una “analisi dell’esistenza”: “un’eumeneutica dei fenomeni della vita reale” (171) Ma questa vera vita, l’esistenza (“Dasein”), a lui non sembra una vita partorita ma una vita “gettata nel mondo”: l’essere umano non sa da dove viene, si trova nella vita senza sapere perché e deve “inventarsi” da se. Anche se Heidegger chiama l’essere nato talvolta ”Un Existenzial”, un punto fermo, in definitiva lui sceglie “la strada privilegiata della morte”(179). Questo, secondo Christina Schües , ha la conseguenza che gli appaiono in una luce neutra o addirittura di disturbo le relazioni fra persone e la pluralità alle quali l’essere umano è vittima nella sua ricerca della autenticità. Siccome Heidegger considera la nascita solo come un avvenimento passato e dimenticato e non come inizio concreto di una vita relazionale e in un tessuto generatrice il suo pensiero resta catturato in un isolamento strano senza mondo nonostante la sua volontà di essere vicino all’esistente.

Come si può pensare l’essere nati da donna?

Nella seconda parte della sua ricerca Christina Schües si confessa fenomenologa lei stessa: collegandosi soprattutto alla terminologia di Edmund Husserl osa porre la domanda come sia possibile esprimere meglio e in modo più adeguato questo avvenimento che tutti noi abbiamo vissuto senza conservarne ricordo e i suoi effetti sulla nostra esistenza da adulti. Dopo aver preso in esame diverse interpretazioni psicologiche della nascita – trauma o passaggio? Continuità o rottura? Condizione di intenzionalità o separazione originaria? – si occupa in un primo momento e in modo dettagliato della questione come può, comunque, diventare la base della umana autodefinizione qualcosa che abbiamo dimenticato. Ma parole come “traccia”, “memoria del corpo” e “anonimità” si rivelano in questo contesto molto utili e diventa ovvio che gli altri assumano una parte più importante perché io ho bisogno dei loro racconti se voglio sapere qualcosa della mia origine. Se Edmund Husserl aveva cercato di comprendere la costituzione del senso del mondo ancora nell’ambito di una “fenomenologia trascendentale” come atto di coscienza prestrutturato allora la Schües si muove verso una “fenomenologia generativa ” (cap. V). Il soggetto umano non deve più essere mal interpretato come una unità isolata ma essere filosoficamente inserito nella “struttura relazionale incrociata di storicità e relazioni contestuali”(358) Infatti, ogni essere umano ha inizio in una rete di relazioni che trasmette a lei o a lui il suo senso.

Dopo un lungo passaggio attraverso l’opera di Husserl che la Schües prende come punto di partenza, quasi sofferto e poco fruttuoso, forse un utile ginnastica per la mente, senza riuscirci lei arriva alla fine alla dissoluzione salvatrice e alla modifica della domanda posta che per altro ha impegnato generazioni di filosofi: “dal punto di vista filosofica
la domanda principale non può essere come un soggetto riesce a mettersi in relazione ma, al contrario si può ora porre la domanda come era possibile che per secoli l’uomo oppure l’ego in quanto essere umano isolato, cioè senza relazioni, avesse potuto essere il punto di partenza della filosofia…”(399).

Continuare sulla strada del pensiero di Hannah Arendt

Leggere un’altra volta il canone dei “grandi filosofi”, tuttora in vigore, come storia di una omissione è molto faticoso, in primis per l’autrice e poi anche per me che voglio recensire il testo della Schües. Ma questo lavoro è necessario se vogliamo arrivare a un pensiero diverso ben documentato che non segue l’illusione (come qualche idea all’inizio del femminismo) di poter cominciare in una terra linguistica di nessuno senza il riferimento alla tradizione. Anche ogni riflessione dipende dalla “venuta al mondo”, viene perciò da una storia alla quale appartengono inevitabilmente anche i padri per quanto ciechi, miopi o deboli di vista.

Per aver percorso con l’autrice la lunga strada attraverso il deserto dell’oblio della nascita Christina Schües mi ricompensa con un capitolo finale nel quale, fortificata dalla lotta con i padri, lei si riallaccia alla madre del pensiero della nascita: a Hannah Arendt. Con cura espone come la Arendt ha “nobilitato la nascita come categoria umana fondamentale” (401) e ha cominciato a pensare in modo diverso, in modo autenticamente politico, che concepisce l’essere umano non come singolo ma come pluralità e pone al centro l’uomo nella sua differenza. Christina Schües pone a Arendt le domande giuste: Perché non ha considerato chi ci ha messo al mondo? Come mai ha potuto sfuggirle il disordine simbolico fondamentale nata “dall’uccisione filosofica della madre” (Irigaray, Cavarero, Muraro)? Perché non ha reso fruttuoso per il suo pensiero la differenza sessuale? Perché non ha percorso fino in fondo la critica “dell’inganno metafisico dei due mondi, uno del autentico sé e l’altro della pura apparenza” ? (405)– Nonostante le sue domande critiche la Schües ritiene comunque lo sviluppo del pensiero della Arendt il lavoro filosofico più promettente – si tratta di un lavoro, come lei espressamente sottolinea, che è stato già fatto in parte da filosofe, donne e uomini, come Adriana Cavarero, Luisa Muraro e Hans Saner e che troverà la sua naturale conclusione in una “etica delle relazioni” (445-470)

Christina Schües conclude i suoi studi promettenti con un epilogo che ha per titolo “l’attacca all’essere nati da donna” (471) che è stato messo in atto dalla tecnologia della riproduzione con tutto il suo impegno per una tecnicisazione oppure una abolizione della nascita naturale. Con tutto il rispetto per la importanza di questa tematica avrei desiderato una conclusione più sereno: per esempio una proposta come si possa ottenere che altre generazioni di studenti, uomini e donne, non debbano subire il canone di testi filosofici che parlano più della miopia dei padri che non della vera filosofia.

Recensione scritta il 6.11..2008 per la rivista online delle filosofe tedesche: www.bzw.- weiterdenken