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per amore del mondo

Dibattito

Che cosa significa essere una donna? Le basi ontologiche della differenza di genere tra analisi concettuale e teoria politica*

 

  1. Premesse

 

Esistono proprietà ontologicamente forti, e proprietà che lo sono meno. Essere un artista o un mistico o anche un prete possono essere considerate proprietà ontologicamente forti, cioè capaci di determinare l’identità dei soggetti a cui si riferiscono. Sono meno forti dal punto di vista ontologico proprietà come avere gli occhi castani o leggere il giornale. Io ho gli occhi castani, ma l’essere una persona con occhi castani non è per me socialmente ed esistenzialmente caratterizzante; se io ora leggo il giornale, il mio essere una persona che il 15 ottobre del 2000 alle ore 15,30 sta leggendo il giornale non caratterizza la mia individualità umana. In termini più semplici e paradigmatici: l’essere tazza di una tazza è evidentemente decisivo sul piano ontologico, lo è meno il suo essere blu, o verde, o di metallo.

Per diverse ragioni semantiche e culturali (di cui si parlerà più avanti) siamo indotti a ritenere che l’essere di genere femminile, spesso usato come predicato indicante una proprietà del primo tipo, appartenga in realtà al secondo gruppo. Essere una donna non sembra di principio decisivo per la definizione di una individualità umana: per lo meno nel senso che difficilmente una donna è soltanto una donna, mentre una tazza è per lo più soltanto una tazza; oppure perché si suppone una gradualità dell’essere donna che non è applicabile all’essere tazza, si suppone cioè che si possa essere “più” o “meno” donne, più o meno femminili[1].

L’ipotesi da cui prende avvio questo testo è che molte difficoltà politiche del femminismo, e in particolare le difficoltà concernenti la ricostruzione di genere – ossia difficoltà delle donne nel riconoscersi nell’identità di genere, o nel discutere e contrastare la forma preordinata di tale identità (e quindi nel riconoscere obiettivi politici comuni verso cui convergere) – si debbano anche se non principalmente a una certa mancanza di chiarezza circa questo debole stato ontologico del femminile, e alla necessità politica di usare in modo ontologicamente forte una proprietà che non è tale di principio. Esiste la necessità di riferirsi a soggetti politici – dunque a entità politicamente identificabili – definiti come ‘donne’, ma esistono forti dubbi, vuoi sull’uso canonico di tale designazione, vuoi sulla possibilità di pervenire a una definizione non canonica ma politicamente accettabile del femminile. In altre parole: la teoria politica femminista include un problema di definizione dei soggetti politici a cui si riferisce e di cui tratta i diritti, e credo che il femminismo di questi ultimi decenni (anche per il fatto che in molti casi ha rifiutato di definirsi come teoria politica in senso proprio) abbia in una qualche misura mancato di confrontarsi con questa difficoltà. Per lo più comunque si è pensato che gli strumenti filosofici tradizionali non potessero servire allo scopo, o anzi contenessero specifiche resistenze ad adattarsi a un ripensamento dell’ontologia di genere: di qui l’idea motivata di una teoria femminista sviluppata su base antiteorica; ciò però lasciava senza voce almeno una parte della problematica filosofica legata al movimento[2].

Si tratterà allora di capire a quali condizioni, in quali circostanze e perché l’essere (una) donna può valere come proprietà forte, ovvero costitutiva. E un primo suggerimento, che presenterei a titolo di introduzione, è che l’essere donna è una proprietà dotata di una certa forza di interazione con altre proprietà. L’essere blu di una tazza non interferisce con il suo essere tazza, e l’avere i capelli biondi di un artista non interferisce granché con il suo essere artista; invece l’essere donna di un essere umano di sesso femminile, pur caratterizzandosi come proprietà accessoria, non costitutiva né ontologicamente forte di per sé, può occasionalmente interagire con proprietà costitutive. Il problema di una definizione dei soggetti di una teoria politica femminista, e dei loro diritti, è legato alla comprensione di tale interazione o interferenza.

 

 

  1. Definizioni differenzialiste

 

L’ontologia femminista si caratterizza spesso in base alle due grandi linee conduttrici dell’egualitarismo e del differenzialismo. Si tratta di una distinzione lacunosa, essenzialmente perché è difficile trovare di fatto posizioni dell’uno e dell’altro tipo allo stato puro: nella maggior parte dei casi si tratta di una combinazione con dominanza relativa. Non per nulla, le fondatrici del femminismo moderno presentano in vario modo entrambe le tendenze.

Non credo però che si sia fissata una volta per tutte la forma in cui le due posizioni sono ragionevolmente integrabili, e perciò sarà utile anzitutto chiarirsi le idee sull’alternativa, almeno a un livello schematico.

Una posizione di principio egualitarista ritiene che esista di fatto una uguaglianza preliminare tra uomo e donna, che la storia e la cultura del mondo avrebbero misconosciuto e cancellato; la posizione opposta ritiene che invece esista una differenza o una specificità del femminile, che la cultura maschile avrebbe assoggettato e reso minoritaria o culturalmente irrilevante.  Le due posizioni hanno un presupposto comune: l’accettare il fatto (benché non il diritto, nel primo caso) della differenza di genere, e della preliminare definibilità culturale di un essere umano nei termini di proprietà che almeno in principio sono extraculturali in quanto biologiche o naturali. D’altra parte, il voler negare il fatto dell’esistenza del femminile porterebbe a negare il fatto della iniquità sociale, ossia dell’assoggettamento delle donne e del misconoscimento o della violazione dei loro diritti. Il primo problema è dunque capire il tipo o il livello di esistenza del femminile come proprietà insieme culturale e biologica, di principio distinta (oppositivamente) dal maschile, e di conseguenza capire le condizioni per cui tale proprietà possa presentarsi come costitutiva di determinati soggetti umani.

Posto che l’egualitarismo tende a ridurre la specificità naturale o di fatto del femminile, e dunque diventa poco significativo ai fini del nostro discorso, occorrerà riferirsi alle definizioni elaborate in area differenzialista, e ne esaminerò due, entrambe ormai riconosciute come classiche: quella di Carol Gilligan e quella di Catherine Mc Kinnon.

Gilligan (In a Different Voice, 1982) è stata responsabile di una svolta nella teoria femminista. La base della sua indagine è un test noto come dilemma di Heinz. Il signor Heinz ha una moglie gravemente malata, potrebbe essere curata con una medicina molto rara e costosa, ma Heinz non ha i soldi necessari. Il farmacista si rifiuta di dargliela gratis. Che cosa deve fare Heinz? Si tratta evidentemente di un conflitto di diritti: il conflitto tra il diritto di una persona alla vita e il diritto di proprietà. La maggior parte delle persone sottoposte al test hanno sostenuto che Heinz deve rubare la medicina cioè violare il secondo diritto, perché il diritto alla vita è più forte. La maggior parte delle donne però, come notò Gilligan, ha sostenuto che Heinz deve rubare, ma perché sua moglie, proprio sua moglie, ha bisogno di aiuto. “Una decisione morale dal punto di vista delle donne è dunque sempre una decisione contestuale”: non sta nella contrapposizione tra principi astratti alternativi, ma nel complesso di una situazione relazionale, di cui si conoscono le persone, i rapporti, la storia precedente. E il primato della contestualità secondo Gilligan è alla base dell’etica specificamente femminile, che si sviluppa come etica della cura, governata da un unico principio: le esigenze dell’altro.

In riferimento a quel che qui ci interessa, cioè la definizione del femminile, Gilligan ci dice dunque che essere di genere femminile = essere prestatrici di cure, o essere tendenzialmente, vocazionalmente prestatrici di cure. C’è però un rischio evidente: si rischia di confondere il fatto con il diritto. Gilligan rischia cioè di consolidare l’immagine di subalternità propria della posizione femminile consacrando e rendendo canonico il ruolo tradizionale delle donne come amorevoli soccorritrici.

Catherine McKinnon (Toward a Feminist Theory of the State, 1989) ha sintetizzato molto bene il limite della posizione di Gilligan, osservando che le donne apprezzano la cura probabilmente perché gli uomini hanno apprezzato le donne secondo la cura prestata. Se è vero che le donne  pensano in termini relazionali, forse ciò avviene perché l’esistenza sociale delle donne è per l’appunto definita in relazione agli uomini. Come si vede, abbiamo ancora qui alcune circostanze fattuali (le donne sono così e così, l’essere una donna, o l’essere femminile, è caratterizzato da questi requisiti) su cui forse non c’è divergenza, ma la divergenza sussiste in chiave valutativa e genealogica.

Qui arriviamo a un punto nodale, ma anche a un punto critico. McKinnon parte dalla premessa del dominio ideologico maschile, che arriverebbe a determinare il fatto su cui si appunta Gilligan, e perciò vanificherebbe la sua definizione, togliendole ogni normatività. Ma quale è allora la natura del femminile? Come definire il femminile? Quali circostanze positive abbiamo per farlo?

L’analisi di McKinnon si appunta sulla definizione sessuale. La sua tesi è che la nostra società è fortemente determinata dalla sessualizzazione, dalla eroticizzazione dei rapporti sociali. Le donne sono costruite come oggetti sessuali, e la sessualità è definita in termini di violenza e aggressione: solo il 7,8 % delle donne a quanto sembra non subisce né ha subito violenza; il 90 % circa del materiale pornografico diffuso nel mondo presenta elementi di sadismo maschile nei confronti delle donne. I dati di Mc Kinnon sono probabilmente un po’ gonfiati, e la sua indagine è stata discussa. Quel che conta però è la tesi di fondo: la violenza è nella sessualità così come gli uomini l’hanno costruita, e poiché le donne sono immerse in questa realtà sessualizzata, a nulla vale mettere l’accento sulle scelte delle donne, o sul fatto che potrebbero desiderare essere come sono. Non c’è etica né pensiero femminile: solo la paura delle donne, e il loro tentativo di difendersi e di trovare un ruolo (per es. la cura) alternativo all’assoggettamento sessuale. Questo significa che non ci può essere teoria femminista né definizione del femminile, finché il mondo non cambia, e può cambiare il mondo secondo McKinnon attraverso la pratica dell’autocoscienza.  Le donne ripensano se stesse nella pratica dell’autocoscienza, mirando a una decostruzione dell’identità di genere.

Se dunque Gilligan intende cambiare il mondo per adattarlo all’a priori discutibile di un femminile buono e amorevole, McKinnon intende cambiarlo semplicemente. Ma c’è un problema: se il pensiero e il linguaggio sono sovradeterminati dalla sessualità maschile, e non c’è “voce di donna”, come fa McKinnon a pensare quel che pensa e a dire quel dice? Il punto debole della McKinnon rispetto a una teoria femminista è proprio questo: l’indeterminatezza della risposta alla domanda circa quel che le donne pensano e vogliono e sono[3].

In relazione al nostro problema dunque, si può dire che rispetto a Gilligan McKinnon fa un notevole passo avanti sul piano della critica femminista, ma in un certo senso un passo indietro sul piano della teoria del femminile. Infatti per McKinnon il femminile è un’incognita, una x ancora da determinare; non c’è un essere delle donne perché quel che vediamo come femminile è sovradeterminato dalla cultura dominante (maschile).

In realtà sono questi solo due esempi dei limiti del differenzialismo in funzione di una ontologia della differenza di genere. Altri esempi, anche filosoficamente più interessanti, sono forse altrettanto problematici. Per es, Christine Battersby, in The Phenomenal Woman, ha suggerito l’idea di un “altro pensiero”, basato sulla singolarità (alla Kierkegaard) e contrapposto al teoreticismo astratto del logos maschile dominante. Ma se il logos femminile va determinato con la voce della singolarità kiekegaardiana allora ci si chiede perché e in quale senso Kierkegaard fosse un uomo. Non era forse un uomo? Era un uomo sbagliato? Era in qualche senso “donna”?  L’idea che nella questione si annidi non tanto un problema di genere, quanto di mutazione antropologica (ossia: non si tratta tanto di definire l’essere una donna, ma di proporre un modello di umanità diversa) attraversa peraltro molte pagine del differenzialismo contemporaneo. (Tra le italiane la caposcuola del differenzialismo radicale è stata Carla Lonzi, a cui si richiamano in vario modo le esperienze, oggi più esplicitamente mirate a una analitica antropologica, di Rosi Braidotti, Adriana Cavarero, Luisa Muraro e del gruppo di Diotima)

Ogni teoria del logos alternativo, dell’“altro pensiero”, incontra comunque una impasse: essenzialmente perché il logos (maschile?) ha già pensato il proprio altro, ha sempre contenuto il proprio altro. Questa è la specifica difficoltà filosofica del differenzialismo radicale: l’impossibilità di definire l’altro pensiero, l’altro punto di vista, in quanto appunto dovrebbe restare altro rispetto al linguaggio e al pensiero in cui si vorrebbe definirlo. Posto infatti che lo stile (o la forma o la modalità) entro il quale è stato pensato il femminile non sia esso stesso uno stile femminile, e che si debba anzitutto ripensare lo stile della definizione di genere, resta l’enigma di quale sia l’effettivo contenuto di tale differenza, e dello stile relativo. In che cosa il femminile dovrebbe dirsi differente? Come potrebbe dirsi tale, e rispetto a che cosa?

Tutte queste difficoltà a mio avviso si chiariscono (e in parte si dissolvono) attraverso una analisi più ravvicinata del predicato “essere una donna”.

 

 

  1. La struttura del concetto

 

Ritorniamo allora al discorso di fondo. Quando parliamo di (questione) femminile, e di donne, di che cosa stiamo parliamo? Proporrei anzitutto un tentativo di caratterizzazione per via formale o strutturale, quindi (cfr. par. 6) un’analisi semantica:

 

(1) essere una donna =df  essere provvisti di un insieme di proprietà di tipo biologico o biomorfologico, che hanno un correlato, e una serie di conseguenze, sul piano  culturale ed esistenziale. Dunque, posto che “D” indichi “essere una donna”, o “essere un essere umano di genere femminile”, Dx = “x è provvisto di un certo insieme di proprietà biologiche e bio-morfologiche, legate a una correlativa serie di proprietà culturali ed esistenziali”.

 

(2) essere una donna =df  essere provvisti di un insieme di proprietà bio-morfologiche e biologiche e correlativamente culturali-esistenziali, definito oppositivamente o differenzialmente rispetto al maschile; dunque Dx = “x è provvisto di una serie di proprietà … (come sopra), globalmente e singolarmente caratterizzate per opposizione a un’altra serie di proprietà dello stesso ordine, che ineriscono a ogni y tale che y ¹ x  e Uy”.

 

La definizione (1) stabilisce un nesso di corrispondenza, o di isomorfismo, o di continuità, tra biologico e culturale, la (2) stabilisce un nesso di differenziazione esclusiva (opposizione) rispetto al maschile (2). Abbiamo dunque due coppie di termini: maschile e femminile, culturale e biologico; il loro combinarsi determina il quadro concettuale entro cui ci muoviamo.

Va ricordato che non soltanto la distinzione sul piano culturale, ma anche quella sul piano biologico è discutibile ed è stata discussa. Ma quel che ci interessa ora è solo l’esame strutturale dei predicati “essere una donna”, e/o “essere un essere umano di sesso femminile”.

Si noterà subito che ammettendo le definizioni (1) e (2) si moltiplicano le funzioni, e ci saranno un femminile sul piano biologico a cui eventualmente dovrà corrispondere (o no?) un femminile sul piano culturale, un maschile biologico a cui corrisponderà (o no?) un maschile culturale. Poiché la corrispondenza culturale-biologico non è data a priori, si avranno (o si suppone che possano esserci) uomini biologici non culturalmente uomini, e donne biologiche culturalmente non donne. Come si vede, l’indebolimento della connessione tra culturale e biologico stabilita nella (1) determina anche un indebolimento dell’opposizione indicata nella (2). Assumendo “femminile” e “maschile” come designativi di proprietà culturali (come è entrato nell’uso) avremo allora una tipologia quadripartita: uomini maschili e uomini femminili, donne femminili e donne maschili. Ed è questo sostanzialmente ciò che la nostra cultura assume come dato genericamente osservabile, ossia l’opinione di senso comune circa la differenza di genere. L’idea di fondo è: tale differenza ha un rilievo anagrafico, e solo in quanto tale si rivela di interesse sociale.

Da qui proviene anche evidentemente quel che  chiamiamo discriminazione. Nessuno infatti ci dice che da differenze biologiche e anagrafiche debbano necessariamente derivare differenze di status sociale e/o esistenziale, e comunque tale connessione si traduce in discriminazione nel momento in cui (per le implicazioni della definizione al livello (2)) altri soggetti sperimentano tipi opposti di connessione: nel momento in cui uomini in quanto biologicamente tali godono di certi privilegi, o anche di certe collocazioni e destinazioni sociali.

Ma da qui proviene anche un’effettiva attenuazione delle ragioni politiche del femminismo: perché si suppone che la nostra cultura, dotata di una ontologia di sfondo piuttosto duttile quanto alla differenza di genere (il dato biologico non è comunque assunto come di per sé rilevante), non discrimini realmente tra uomini e donne, né propriamente tra maschile e femminile, e che l’effettività statistica della discriminazione sia un effetto soltanto contingente e casuale, legato a circostanze estranee alle pregiudiziali di fondo di una cultura, e puramente contestuali: per esempio legato al fatto ovvio che l’insieme delle prestazioni connesse alla maternità costituisca comunque un fattore ritardante per quel che riguarda la vita sociale di un individuo provvisto delle proprietà (1).

Questo significa in particolare che la teoria femminista non sarebbe né potrebbe  essere una “connected politics”, ossia una teoria politica legata a una (macro)teoria normativa, ma si svilupperebbe unicamente in base alle contingenze e opportunità pratiche, di volta in volta considerate, e di volta in volta indirizzate a ristabilire condizioni di equità. Ciò comporta un certo primato del politico sull’ontologico, in ambito femminista (non diversamente da quanto avviene in altri settori): ma c’è qualche dubbio che in relazione al discorso femminista (come altrove) questa pragmatizzazione del politico presenti davvero le migliori opportunità.

 

  1. Due difficoltà

 

In realtà, ci sono alcuni elementi difettosi, nel quadro teorico definito da (1) e da (2), che vanno ancora indagati.

 

  1. A) Il primo riguarda soprattutto la definizione (2). Essa vincola la caratterizzazione delle proprietà di tipo (1) (biomorfologiche e culturali) a una determinazione oppositiva, e in qualche misura ci suggerisce che l’essere biologicamente e culturalmente una donna ha qualche rilievo se e solo se sussiste realmente una differenza esclusiva tra maschile e femminile. In altri termini, affinché si intenda pervenire a una definizione razionale, capace di caratterizzare le condizioni di assegnabilità di “x è una donna”, i predicati essere maschile ed essere femminile, uomo e donna, non possono essere considerati come predicati vaghi. In linea di principio, qualsiasi predicato può essere ritenuto vago[4]: questo significa che l’indagine ontologica si fonda in gran parte su una procedura di “precisificazione” (precisification) di predicati, ossia dobbiamo essere in grado di dire quando e come un aggregato di molecole cessa di essere un mero aggregato di molecole e diventa un tavolo[5]. Ora nel caso dell’ontologia della differenza di genere, la difficoltà è accresciuta dalla natura oppositiva del predicato. Essere una donna è rilevante se con l’essere tale non si è né si può essere un uomo: ma di fatto, a partire dalla sola (1), non si possono escludere casi di ermafroditismo biologico o culturale. D’altra parte però, la differenza tra maschile e femminile stabilita nella (2) può effettivamente concepirsi in termini esclusivi se sussiste una effettiva differenza biomorfologica e culturale tra uomo e donna, ossia solo se vale in qualche misura la definizione (1).

C’è dunque una circolarità tra i due aspetti: la connessione di biologico e culturale postula implicitamente l’opposizione di maschile e femminile, e questa non ha luogo di porsi senza l’altra. Per questo difficilmente si potrà sostenere una definizione (1) senza il supporto della (2), mentre è ovvio che è impossibile sostenere la (2) senza la premessa posta dalla (1).

Questa difficoltà si riscontra anche a un livello empirico, non soltanto in chiave di analisi dei concetti.

 

Esempio a – Per esempio: posto che in base a qualche tecnica di imaging cerebrale si stabilisca che in presenza di certi ormoni il cervello di un individuo in atto di moltiplicare 245 per 328 sia irrorato in una vasta zona bilaterale, mentre in assenza di tali ormoni la zona irrorata sarebbe sensibilmente ridotta, prima di parlare (rispettivamente) di intelligenza femminile e maschile resterebbero ancora da stabilire una grande quantità di cose, e anzitutto: l’effettivo rilievo intellettuale della differenza. Non è ancora chiarito infatti se le funzioni di comprensione ed espressione, che nelle nostre società definiscono l’intelligenza culturale, e la rapidità di applicazione delle risorse, che definisce la cosiddetta intelligenza pura (pure brain), siano in qualche misura adeguatamente rappresentate dalle tecniche di imaging. Ma soprattutto, una differenza rilevante dovrebbe stabilirsi solo in assenza totale di ogni fattore disturbante: si supponga per esempio che una certa Violetta sappia che le sue prestazioni intellettuali sono oggetto di critica o di sottovalutazione più facilmente di quanto avvenga per le prestazioni di suo fratello Alfredo: Violetta certamente avrà una tendenza a sviluppare una serie di emozioni collaterali, accanto alla prestazione suddetta, che Alfredo potrà evitarsi; lo stesso dicasi per Veronica. Il dato fornito dall’imaging non potrà tenere conto della densità storica delle esperienze dei soggetti in atto di moltiplicare 245 per 328, e registrerà l’analogia tra Violetta e Veronica come un tratto senz’altro “femminile”. Ma una differenziazione come quella di cui stiamo trattando è tipicamente il frutto di una interazione storica.

Esempio b – D’altra parte, una indagine statistica sulle prestazioni maschili e femminili, come quelle riscontranti il primato femminile nell’ordinamento dei dati, e il primato maschile nel problem solving, non potrebbe essere in alcun modo assunta come ontologicamente rilevante. Un grande sistematore di dati come Hegel dovrebbe considerarsi un caso esemplare di intelligenza femminile?

Esempio g – Infine, supponiamo che si riscontri la presenza di fattori psicologici caratteristici, come stati depressivi, in concomitanza con la crescita o la riduzione di determinate componenti chimiche: non è ancora detto che tali stati abbiano un carattere intellettualmente qualificato: circostanze intermedie tra biologico e psichico potrebbero interferire. Per esempio, in situazioni in cui un individuo avesse determinate possibilità espressive, certi picchi ormonali potrebbero avere effetti positivi sulla sua creatività, determinando un ritorno di soddisfazione personale capace di annullare le qualità depressive previste per ormoni di quel genere.

 

Ciò non significa affatto che le ricerche empiriche siano filosoficamente irrilevanti quanto all’ontologia di genere, né che non si possa stabilire la differenza tra maschile e femminile su piani empirici diversi. Significa soltanto che la pretesa di derivare da tali riscontri elementi definitori ontologicamente, esistenzialmente, e politicamente significativi può essere fonte di grande confusione.

 

  1. B) Il secondo e forse più problematico elemento di difficoltà deriva dal fatto che le proprietà indicate da (1) e (2) non sono proprie di una tazza né di un pipistrello, ma di entità fornite di funzioni cognitive e linguistiche, ossia entità assegnatrici di predicati, e dei valori semantici relativi. Troviamo dunque l’idea di un femminile in sé o effettivo e un femminile pensato o detto dal maschile, o nell’ottica del maschile (da cui le ragioni di McKinnon, e i limiti della definizione di Gilligan), quindi un maschile in sé e un maschile pensato e detto dal femminile (di qui i limiti della posizione di McKinnon). Naturalmente anche in questo caso ci si collega al fenomeno della discriminazione, benché questa volta con un accento differenzialista: poiché si riscontra (o alcune ritengono di riscontrare) che il genere linguisticamente dominante appartiene ai soggetti dotati della proprietà culturale M (maschile), in quanto correlato della proprietà biologica U (uomo). Se però vale l’ipotesi genealogica del dominio storico-linguistico degli uomini, le ragioni del differenzialismo di McKinnon sono forti a tal punto da trasformarsi in limiti: il predicato U detto, assegnato e definito dalle donne non dovrebbe avere (avuto) corso storico-linguistico, dunque la stessa analisi di McKinnon galleggerebbe in una forma di nulla ipotetico, mancandone il correlato più proprio, ossia il referente dell’area semantica definita da M.

In verità, questo secondo aspetto è più problematico del precedente, perché qui sono posti i preliminari di una guerra infinita. Ossia: non abbiamo soltanto due ordini di diritti e di ragioni, ma due punti di vista che elaborano il punto di vista dell’altro, e l’intera immagine del conflitto. Lo scardinamento del conflitto, ossia la politica della pace, richiederebbe una progressiva revisione e ricostruzione dei tre termini di ciascun punto di vista: l’essere femminile secondo le donne, la loro concezione del maschile, la loro visione della differenza o del conflitto tra maschile e femminile, e correlativamente: l’essere maschile secondo gli uomini, la loro visione del femminile, ecc.. In questa direzione si muovono a mio avviso le migliori esperienze del femminismo contemporaneo.

Ma in più, è tanto più arduo controllare e se mai far cessare una guerra quanto meno esplicitamente sia stata dichiarata, e quanto più difficile sia individuare i componenti degli schieramenti in lotta. C’è in effetti il fondato dubbio che la stessa interpretazione del problema in termini di guerra sia in qualche modo riduttiva o fuorviante. Se non altro perché come abbiamo già visto la nostra doppia definizione formale ci suggerisce che il femminile è un concetto relazionale: (oppositivamente) rispetto al maschile, e (in termini di rapporto) rispetto al nesso tra biologico e culturale. Essendo un concetto relazionale ha qualità estremamente problematiche sul piano ontologico: ossia nel momento in cui intendiamo servircene esclusivamente e unilateralmente, ci troviamo di fronte a quella serie di ben note difficoltà che contraddistinguono ogni discriminazione di etnia e di appartenenza. Io non ho difficoltà a dire che ho gli occhi castani,  ma nel momento in cui pretendessi di definire analiticamente il castano di un’iride umana contrassegnandone la differenza dal grigio-marrone, dal verde, dal nero, dal giallo, dall’ocra, e facendone conseguire discriminazioni ed esclusioni, potrei trovarmi in serie difficoltà. Allo stesso modo, la pretesa – da parte maschile come da parte femminile – di fondare e amministrare una guerra su basi così fragili come predicati relazionali del tipo (1) e (2) sembra decisamente arrischiata.

 

  1. Per un egualitarismo anomalo

 

In alternativa alla determinazione classica delle proprietà (in relazione al femminile come in relazione ad altre determinazioni analoghe) si possono naturalmente suggerire due emendamenti canonici: l’idea di gradualità, e l’idea di eterogeneità dei piani. Nel primo caso si assume che si è maschi o femmine solo per gradi, e dunque maschile e femminile sono qualità graduali e idealtipiche (come già suggeriva Otto Weininger in Sesso e carattere), con nessun individuo capace di incarnarle perfettamente in natura. Nel secondo si sottolinea il fatto che come ho accennato i livelli sui quali dovrebbe riscontrarsi l’evidenza del femminile sono tanto eterogenei da far sì che la connessione risulti di principio arbitraria, e riservata alla semplice contingenza culturale e storica (perché certe determinazioni bio-morfologiche devono avere un correlato culturale? In quale senso l’identità socio-culturale di un individuo di genere femminile deve essere determinata dal suo essere di sesso femminile? In quale senso le ripercussioni psicologiche di certi ormoni non sono già di fatto culturalmente determinate? Ecc.) E naturalmente, si possono assumere simultaneamente entrambe le soluzioni, sottolineando che il predicato D è vago, e la sua assegnazione è condizionata a regimi e contesti specifici; ovvero: di nessuno si può dire che è una donna, e di tutti si può dire che lo sono in una certa misura e in certe situazioni[6].

Tuttavia, come ho già suggerito, chi rispetta troppo diligentemente la fragilità della determinazione ontologica rischia di lasciare senza voce la denuncia della discriminazione storica. Se si mira a una chiarezza analitica nel precisare la natura del femminile, si rischia di far passare in secondo piano le ragioni della esclusione delle donne (della maggioranza di esse) dalla storia. Per esempio, posto che si assuma la vaghezza dei predicati uomo – donna, come si spiega se non nei termini di un fatale errore che alle donne sia precluso il sacerdozio, in alcune religioni? D’altra parte, proprio la vaghezza dei predicati ci dice che se le donne sono escluse da certe cariche pubbliche ciò si deve all’inefficienza relativa degli individui oggetti di esclusione, non a un vero criterio discriminatorio. È questo un problema tipico dell’egualitarismo. Un buon differenzialismo ha buone ragioni nell’ammettere che se pure è vero che definizioni del tipo (1) e (2) sono votate a sottolineare la debolezza strutturale del concetto, ciò non significa che la differenza in sé non sia in qualche senso e modo rilevante. sia in senso positivo (in quanto l’essere femminile ancora da definirsi potrebbe comportare certe buone qualità), sia in senso negativo (in quanto all’essere donne corrispondono di fatto situazioni di discriminazione e iniquità sociale). Un estremo differenzialismo anti-teorico direbbe che la fragilità ontologica di F è il segno dell’inefficienza del pensiero astratto (maschile) a cogliere l’effettività empirica dell’ingiustizia.

È vero in effetti che io non sono propriamente una donna, almeno fino a quando qualcuno, a partire dalla configurazione (1)+(2), mi impone di esserlo. È vero peraltro che essendo tale configurazione teoricamente difettosa, l’imposizione relativa (da qualunque parte provenga: da mia madre, dal mondo maschile, dalla storia, dal contesto socio-culturale in cui mi trovo, da me stessa, in quanto ho assimilato il dettato storico che riguarda (1) e (2), o in quanto mi piace D così come caratterizzato da (1) e (2)) risulta perlomeno ontologicamente impropria.  Ma questo ci dice qualcosa di fondamentalmente astratto, in quanto valido per molte coppie concettuali. In altre parole, la definizione oppositiva e bio-culturale di M/F e U/D, è sotto processo come qualsiasi altra definizione oppositiva e bioculturale, come bianco-nero, palestinese-ebreo ecc.. Sembra dunque che (1) e (2) non colgano la realtà e la specificità del conflitto sul piano ontologico e politico.

È chiaro che a questo punto occorrerà addentrarsi nella semantica dell’essere femminile, e per fare ciò sarà necessario almeno provvisoriamente adattarsi a riconoscere l’idea del dominio storico maschile.

 

  1. Semantica del femminile

 

Ammettiamo allora il principio differenzialista: il maschile definisce la risonanza culturale del femminile. Ossia: la storia maschile ha posto il femminile nella categoria dell’esclusione (o dell’ “assenza”). Questo ci consente di recuperare la dicotomia culturale/biologico, definendo il femminile come = l’immagine del dominato, per ragioni che la natura non spiega, o spiega solo in parte (cura della prole, a causa della prematurazione specifica della nascita dell’uomo).  Allora abbiamo il seguente risultato: il dominio culturale maschile ha fatto sì che l’immagine dominante, sia dei due punti di vista, sia del conflitto, sia stata quella del maschio. Abbiamo due punti di vista, maschile e femminile, e solo il primo risulta capace di stabilire differenze di contenuto. Dunque è chiaro che il femminile è un oggetto del maschile, e non ha modo di esprimersi se non nei termini determinati dal maschile.

Tuttavia, se le versioni storico-antropologiche e ricostruttive di queste idee sono in qualche misura ineccepibili, le versioni propriamente filosofiche possono essere fuorvianti, anzitutto perché come abbiamo visto a proposito di McKinnon con l’aderire a tale punto di vista si rischia di trovarsi senza risorse teoriche.

L’ipotesi che suggerisco per uscire da tale impasse è rivedere la nozione di dominio maschile alla luce della fragilità strutturale o debolezza ontologica del concetto di femminile. Mi sembra che questo nella storia del femminismo non sia stato fatto con l’adeguata radicalità, nel senso che o si parla soltanto di dominio maschile come puro fatto storico (ossia il dominio in una chiave egualitarista) oppure si parla di peculiarità del pensiero che avrebbe determinato tali fatti storici, ma si dà per scontata la natura “maschile” di tali peculiarità (il dominio è anche dominio di un modo di pensare e di vivere, estraneo alle donne).

E il primo dato osservabile è che perlomeno in base a queste due prospettive la nozione di dominio storico del maschile risulta fortemente discutibile. Non perché non ci sia di fatto o non ci sia stata una dimensione gregaria e culturalmente sacrificata delle donne, ma perché è dubbio chiamare “maschile” tale quadro culturale. In altre parole: vorrei mettere in dubbio il fatto che la storia che celebra gli uomini sia stata fatta soltanto da uomini.

E qui c’è il nucleo del problema, credo: infatti l’immagine del rapporto e del conflitto tra i sessi che si è determinata culturalmente non è unilaterale, come dire: anche “le donne” hanno contribuito a produrla. C’è un matriarcato segreto che percorre la storia dell’Occidente, che ha un volto buono (la Madonna: la dominanza del Cristianesimo con valori cosiddetti femminili, alla Gilligan, fatti propri da un sacerdozio quasi esclusivamente maschile, è il volto buono del dominio femminile) e ha un volto cattivo: le madri edipiche, istigatrici di vendette e guerre, la madre mediterranea, figura mitica sanguinaria, la forza occulta delle donne di famiglia, il potere delle isteriche, che dominano nell’enturage ecc. Allora vediamo che una parte consistente del dominio maschile è composto dal dominio femminile, da concepirsi, rovesciando il punto di vista di Gilligan, come forza dei deboli e degli amorevoli, o, rovesciando quello di McKinnon, come vendetta del dominato diventato dominatore (con la maternità).

Questo naturalmente muta i termini del problema: la storia non è storia del dominio maschile, ma del dominio di una certa alleanza tra maschile e femminile, di una certa divisione del lavoro, tra uomini e donne, rispetto alla quale non tutti gli uomini e non tutte le donne si sono trovati consenzienti. Qui allora la questione femminile sfocia davvero nella questione del potere, e una debole differenza ontologica diventa una forte differenza politica.

Anche nell’analisi marxista esistono proletari che tradiscono la loro classe, o che mancano di coscienza di classe, o felicemente asserviti al capitale: ma qui la questione è molto diversa, qui i predicati in gioco non sono economico-politici, ma onto-politici, qui in gioco è l’essere dei soggetti politici in una forma decisiva e prioritaria, in quanto l’essere D è funzionale alla specie, alla riproduzione, dunque a una serie di condizioni che Marx stesso avrebbe considerato prioritarie rispetto al dato politico-sociale.

Senza l’essere donne delle donne nella forma (2) difficilmente infatti si potrà parlare di uomini. L’essere madri di uomini delle donne e l’essere padri di donne degli uomini complica in effetti notevolmente il quadro polemico-politico.

 

  1. La definizione politica

 

Se quel che ho ipotizzato è vero, se la storia è dominio di un certo maschile accanto a un certo femminile, allora troviamo un elemento in più, e anzitutto uno sdoppiamento ulteriore: esiste un femminile culturalmente potente e un femminile culturalmente debole; che significa: la determinazione biologica è del tutto inespressiva sul piano culturale, almeno per quel che riguarda il potere; essere biologicamente una donna non vuol dire affatto di per sé essere un essere umano dominato.

L’obiezione a questa tesi è nota, per evidenze che stanno sotto i nostri occhi: rispetto alle poche donne dominatrici la quantità di donne sopraffatte e dominate è veramente notevole. Forse possiamo ammettere dunque che quando diciamo “femminile/donna” in senso proprio intendiamo il femminile/donna perdente, che genera un surplus di disadattamento e patologia sociale?  Quando parliamo di femminile in contesti come il nostro, intendiamo forse mancanza di  potere, poiché il femminile potente non è femminile (per lo meno non lo è patologicamente e dunque politicamente)?

Non so se sia proprio così, certo è che abbiamo cambiato il quadro di riferimento. A questo punto è evidente che ci troviamo alle prese con la determinazione politica. Quando diciamo femminile in senso proprio stiamo dicendo femminile in senso politico. Quando parliamo dell’essere una donna di una donna stiamo parlando della collocazione e natura di un soggetto politico. Qui ritorna in gioco anche, con tutti i suoi diritti e le sue ragioni, il discorso egualitarista: la questione femminile è questione dell’emarginazione sociale e della repressione delle donne, di quelle donne escluse dal potere in quanto non-donne secondo i parametri previsti dalla coppia storicamente dominatrice. “Essere D” è proprio di un soggetto assoggettato.

C’è solo questo aspetto, in gioco?  Senza dubbio è eminentemente così, nel senso che quando assegniamo i predicati D o F in un contesto politico intendiamo: partecipare di una forma dell’oppressione, della marginalizzazione sociale, dell’ingiustizia. È però evidente che c’è un modo particolare delle donne di essere assoggettate, e questo modo  ha qualcosa a che vedere o dovrebbe avere qualcosa a che vedere con tutto quel che abbiamo detto, ossia con la difficoltà di definire il femminile afferrando il nesso tra culturale e biologico, e districando i legami oppositivi tra maschile e femminile.

Di qui l’ipotesi che vorrei suggerire, ossia: la fragilità del femminile sul piano ontologico determina la difficoltà di riconoscersi nell’immagine culturale del genere, e dunque la difficoltà di dare un fondamento ontologico a un soggetto politico, e tuttavia, di fronte a casi di sfruttamento e assoggettamento delle donne, tale soggetto si scopre consistente sul piano politico.  Le donne sono soggetti fragili in quanto è ontologicamente fragile la proprietà di cui intendono rivestirsi o si intende rivestirle; le donne sono potenziali portatrici di un sovrappiù di ansia e di patologia sociale in quanto esiste positivamente l’esigenza di riconoscersi come soggetti forti o comunque ben determinati sul piano politico, e tale esigenza dipende dalla maggiore frequenza delle situazioni di ingiustizia e oppressione in cui ci si trova.

Sembrano conclusioni soltanto descrittive, ma non è così, credo anzi che tutto questo possa costituire un punto di avvio sul piano normativo.

 

 

  1. Conclusioni: i possibili mondi

 

Ricapitolando, le proprietà relazionali-oppositive come maschile e femminile hanno un valore ontologicamente costitutivo nella dialettica sociale. Il soggetto femminile per così dire ha una realtà e una esistenza come soggetto politico, ossia come ricostruzione correlativa a una costruzione iniqua (quella che ha determinato la situazione di minorità delle ‘donne’ – di alcune di esse – come di altri soggetti politici assoggettati). Il soggetto femminile esiste in quanto soggetto politico (più o meno assoggettato), ed esiste come risultato di una ricostruzione orientata politicamente. Su un piano soltanto ontologico, a rigore non esistono criteri di discriminazione tra uomini e donne, e forse non è neppure possibile definire un essere umano in termini di proprietà costitutive.

La natura eminentemente politica  del predicato D non autorizza però a una pragmatizzazione del femminismo, non autorizza cioè a rinunciare alla determinazione teorica di che cosa significa essere una donna. La fragilità ontologica del predicato in altre parole non legittima una dissoluzione del problema ontologico, che comporterebbe una considerazione unicamente pratica della questione femminile.

Possiamo assumere invece che essere una donna ed essere un essere umano di sesso femminile siano predicati ontopolitici, ossia tali da avere rilevanza ontologica in contesti politici. La caratteristica di tali predicati è precisamente quella che si è indicata nei paragrafi precedenti: l’essere cioè ontologicamente deboli, ma forti (onto)politicamente. In effetti, se vale l’idea della gradualità e della eterogeneità dei piani, posso ammettere che sono una donna, ossia assumo prerogative del tipo (1) e (2), in modo contestuale e occasionale. Per esempio, sono una donna nel momento in cui per ragioni di incontro o scontro sessuale mi riconosco nelle proprietà di tipo (1) o (2), sono una donna e mi riconosco tale nel momento in cui vengo discriminata per ragioni di tipo (1) e (2), sono una donna in casi in cui sperimento su di me o su altri gli effetti sociali della assunzione delle proprietà (1) e (2) in senso ontologicamente forte. Di fatto anche l’esistenza delle classi sociali è stata discutibile per la stessa tradizione marxista: non per nulla la definizione di classe ha richiesto un gran dispiego di forze teoriche, e notevoli aggiustamenti sul piano socioeconomico. E di fatto, un proletario è effettivamente tale nel momento in cui certe contingenze storiche lo rendono esemplare politicamente, ossia lo portano ad aderire alla teoria ricostruttiva che lo riguarda.

Ciò vale per tutti i soggetti di diritti politico-sociali. Il fatto che la riconoscibilità della loro esistenza dipenda da certi modi di descrivere-ricostruire la realtà non li rende meno reali ed esistenti. La natura dei predicati ontopolitici è inoltre tale da permettere in alcuni casi la cumulabilità. Nel caso delle donne, l’essere femminile le rende potenziali portatrici di un surplus di patologia sociale: l’essere un proletario donna significa cumulare la patologia di classe alla patologia di genere, l’essere una donna nera significa cumulare la patologia di genere alla patologia di razza, e così via.  Infine, la non esistenza o la fragile esistenza del “femminile” sul piano ontologico è ciò che rende costitutivamente fallimentare  l’esperienza del confronto con la costruzione culturale dell’identità di genere.

É chiaro che l’analisi dovrebbe continuare a lungo. L’adozione di un punto di vista di questo tipo richiederebbe tra l’altro anche una riflessione più generale sulla sessualità, che riveda e integri le premesse di McKinnon. Ma si può per ora concludere chiedendosi: che cosa significa in sintesi, sulla base di queste premesse, che il femminile è costitutivo cioè definisce effettivamente un soggetto (soggetto di diritti, soggetto morale) solo in quanto proprietà politica?

Dal mio punto di vista, questo significa due cose. La prima è che l’essere donne è un modo d’essere virtuale, che si attiva nelle situazioni in cui si è considerate donne, ossia si è assoggettate sessualmente o psicologicamente o socialmente, o si è confinate o ci si confina nel ruolo della cura. La seconda – e a mio avviso la più importante – è che questo essere-femminile deve attivarsi a sua volta sempre misurando una distanza tra quel che è e quel che dovrebbe essere. Noi cioè troviamo–definiamo il femminile, nel senso più proprio, solo nel momento in cui cerchiamo di immaginare un mondo in cui le donne non sarebbero più oltraggiate, offese emarginate e assoggettate. Solo rispetto a questo mondo esistono politicamente soggetti femminili; solo questo mondo immaginato, progettato e argomentativamente difeso, può essere il termine di confronto per una esatta determinazione del femminile, ed è la vera forza politica e terapeutica.

 

 

*              Una prima versione di questo testo è stata presentata il 30 maggio del 2000 a un convegno su “Identità di genere e depressione”, a Torino – Villa Gualino;  una traduzione tedesca con minime variazioni (“Was bedeutet es, eine Frau zu sein? Ontologische Grundlagen der Geschlechterdifferenz zwischen Begriffsanalyse und politischer Theorie”) è apparsa sulla rivista Die Philosophin, n. 29, 2004, pp. 42-60.

[1]              Una gradualità comunque discutibile, come è stato osservato da un’artista francese, Corinne Braf: “on dit  de certaines femmes qu’elles sont très femmes – dit-on d’une casserole qu’elle est très casserole?”.

[2]              La mozione polemica di Elisabeth Badinter (cfr. Fausse route, Odile Jacob, Paris 2003) sicuramente include anche queste perplessità, ma non le sviluppa nel senso della necessità di una riconsiderazione delle basi teoriche del femminismo. Il tema è invece al centro dei lavori di Judith Butler, cfr. What’s Left of Theory,  con J. Guillory e K. Thomas, del 2002, e il recente  Precarious Life, a cura di O. Guaraldo, Meltemi, Roma 2004. La migliore rivendicazione della necessità di un rilancio della teoria nel femminismo contemporaneo che io conosca è però un importante intervento di Ingrid Salvatore, Teoria femminista e critica, in AAVV, Ragionevoli dubbi, Carocci, Roma 2001, da cui riprendo molti spunti.

[3]              Questo aspetto è ben illustrato da I. Salvatore, cit.

[4]              Il tema della vaghezza è oggetto di molteplici studi in ontologia e filosofia del linguaggio, cfr. a titolo introduttivo l’indagine preliminare di Timothy Williamson, Vagueness, Routledge, London 1994.

[5]              Su questo tema cfr. A. Varzi, Cut-offs and their neighbors, in J. C. Bell, Liars and Heaps, Clarendon, Oxford 2003.

[6]              Non sono convinta che una deontologizzazione dei predicati di genere del tipo di quella proposta da Judith Butler (per quel che per ora posso dire) sia una via da percorrere. “Gender is a matter of doing and its effect rather than an inherent attribute, an intrinsic feature” ha sostenuto Butler, ora io ritengo che abbia ragione per quel che riguarda la natura non “intrinseca” e non “inerenziale” del predicato (resta oscuro però quali predicati secondo Butler sarebbero invece inerenziali e intrinseci), ma questo non significa che sia solo una  proprietà pragmatico-contestuale. Ammettendo la posizione di Butler si rischia di cadere in un contestualismo che vede il politico come anti-teorico, o portatore di una teoria anti-canonica e idiosincratica: una visione su cui ho molti dubbi. L’analisi del tipo di proprietà in cui consiste la differenza di genere, come ho cercato di indicare, è di tipo onto-linguistico, e conseguentemente onto-politico: ontologia, politica e linguaggio qui non possono mantenersi distinti.