diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 8 - 2009

Università in movimento

Che cosa (ci) accade all’Università?

La realtà resa instabile e promettente dal femminismo[1]

“Sarò di nuovo in piazza fino a quando l’Università non sarà un posto migliore”dichiara Francesca, una studentessa di 19 anni che con molti altre/i studenti, maestre e docenti, madri e padri, qualche rettore, da settimane sta protestando in Italia, nelle piazze, nelle scuole, nelle Università, contro i recenti provvedimenti del governo che umiliano l’istruzione pubblica, dalle scuole dell’infanzia fino all’Università, agli enti pubblici di ricerca, all’alta formazione.  Le sue parole mi colpiscono e mi ricordano una frase della grande scrittrice Clarice Lispector, che in passato ho con altre condiviso: “Il mondo intero dovrà trasformarsi  perché io possa esservi inclusa”[2].

Si tratta, a ben vedere, non tanto di una protesta forte contro qualcosa, quanto di una grande pretesa. E’ la pretesa di un mondo altro, una necessità fondata sul sentire, più di donne che di uomini, di non poter andar d’accordo con il mondo così com’è. E’ il sapere che altro c’è, ma non quel mondo, più nuovo, più moderno, più produttivo che la macchina del potere maschile si accanisce, nonostante le smentite storiche, a disegnare. Grande pretesa è piuttosto la ricerca di un’altra strada, che ancora non si conosce e forse conduce all’ignoto, la strada  di far esistere ciò di cui si ha bisogno e desiderio, di uscire dall’automoderazione che induce ad accontentarci di poco, e di restituirci invece al mondo delineandone un altro e più grande orizzonte, facendo emergere una realtà più vera e umana. Le parole della studentessa, non a caso una giovane donna, mi richiamano anche quelle con cui Milagros Rivera apre il suo testo per questo Informe per raccontare la sua scommessa politica dell’inizio: “Cuando algunas universitarias fundamos en 1982, en la Universidad de Barcelona, lo que ahora es el Centre de Recerca Duoda, el deseo que a mí me guió fue que aquel espacio y aquellas relaciones fueran, poco a poco, convirtiéndose en la universidad que yo quería”.

Non posso fare a meno di considerare ciò che sta accadendo in Italia mentre scrivo:  un momento di grave crisi si è trasformato in una grande occasione. Il governo, in modo cieco, unilaterale e autoritario, ha deciso di intervenire sulla scuola e sull’Università pubbliche distruggendo ciò che c’è di buono e togliendo ad esse il futuro: per far quadrare i conti dello Stato ed eliminare le inefficienze, si dice, in realtà per volontà di controllo del corpo sociale[3], per confermare il primato dell’ideologia e del mercato neoliberisti e il potere di avide oligarchie politico-finanziarie, a cui nulla importa di formazione, ricerca, cultura diffusa e partecipata. In questi giorni il primo dei due provvedimenti di legge, assunti senza contradditorio, senza confronto e spacciati per “riforme”, riporta intenzionalmente la scuola italiana – in particolare nei suoi segmenti iniziali (scuola dell’infanzia e primaria), conosciuti in tutto il mondo per la loro eccellenza per merito delle donne che vi lavorano –  alle condizioni di sessant’anni fa: maestro unico, disciplina, bocciature, tempo scuola dimezzato e concentrato sulle materie curricolari, servono per ripristinare la “scuola della serietà”, sostiene il governo. Il secondo provvedimento di legge mira a distruggere l’Università statale sottraendo ad essa le risorse finanziarie indispensabili, la possibilità di ricambio generazionale, la sua stessa possibilità di sopravvivenza come istituzione pubblica e aperta a tutti. Le conseguenze non si sono fatte attendere. E’ nato un movimento spontaneo imprevisto e imprevedibile, pacifico e fortemente relazionale, che fa leva sulla parola e non sul gesto violento, di cui si sono fatte promotrici maestre e madri e che si è allargato in ondate successive, discontinue e sempre più ampie, in tutto il Paese: con iniziative che hanno visto fianco a fianco bambini, studenti, genitori, insegnanti della scuola, docenti universitari, ricercatrici e ricercatori, larghi settori della società civile, in un’azione singolare e collettiva ai miei occhi inedita. Parlarne in questo testo significa per me già fare politica, perché – come sappiamo dalla politica della differenza sessuale – vedere, leggere, accompagnare la realtà dei fatti con le parole, scommettendo sul loro senso, dà a quei fatti una realtà e una consistenza che altrimenti perderebbero, abbandonati alla deriva  di una interpretazione schiacciata sulla logica del potere. Vedere in questo tempo di passaggio un futuro che è già qui, è operazione tanto rischiosa quanto necessaria. E sento che parlarne in questi termini, sottraendo al potere il senso di ciò che (ci) sta capitando, in questo momento mi orienta nel mio fare e pensare l’Università e forse orienta anche altre, altri.

Guardo ragazze e ragazzi, studentesse e studenti – anche i miei, quelle e quelli conosciuti nelle aule –  tessere relazioni con il piacere della relazione e autorganizzarsi creativamente di volta in volta senza leader o organizzazioni stabili e fuori da partiti e sindacati, li vedo desiderosi di rendersi irrapresentabili e imprendibili da ideologie vecchi e nuove,  e cercare con speranza e civiltà il confronto con noi docenti, con presidi di Facoltà, rettori;  leggo i loro documenti di protesta e di proposta, apprezzo la loro capacità di analisi a partire da sé e in relazione con altre, altri, letture e analisi più acute e mature, perché più libere, di tanta pubblicistica scientifica e politologica; non mi sfugge la loro determinazione a voler esserci in prima persona e a difendere, oltre al proprio, anche il futuro di questo nostro strano Paese e una civiltà di rapporti in cui la cultura e la formazione siano beni personali e collettivi irrinunciabili; ascolto parole impreviste e osservo gesti inusuali di colleghe e colleghi di Facoltà, di Università, e mi chiedo: dov’erano, dove eravamo prima?  E mi viene in mente il titolo di un numero recente di “Via Dogana”, Lei dov’è?  sottinteso: perché non si fa avanti?

Maestre, madri, ragazze e ragazzi che sono le/i nostri figlie e figli si sono fatte avanti per aprire un conflitto alto, e con loro anche noi, docenti universitarie/i ci siamo mosse/i. Non so dove porterà questa strada né quanta sarà la perseveranza nel percorrerla o quanto il coraggio di aprire nuove strade senza farsi catturare dalle logiche degli schieramenti politici,  ma corro il rischio di pensare che “la realtà resa instabile e promettente dal femminismo” stia dando uno dei suoi frutti preziosi e imprevisti; che le possibilità non realizzate ma presenti allo stato nascente nel passato, e proprio per questo rimosse da chi era interessato a conservare l’esistente, si siano dischiuse, facendosi realtà, mondo e libertà, così come è avvenuto per la nostra  libertà con la rivoluzione femminile.

Il nuovo movimento della scuola e dell’Università – oggi nato in Italia ma forse non destinato a rimanere circoscritto al nostro Paese, data la mondializzazione della crisi del sistema capitalistico, e, più radicalmente, dell’ordine simbolico patriarcale – non si definisce politico, prende anzi le distanze dalla politica. Eppure, nella presa di distanza dalla politica istituzionale, quella maschile, dal populismo mediatico e autoritario della destra così come dai guasti e cecità della sinistra, non è difficile riconoscere i segni di una politica altra, la politica del partire da sé e delle relazioni.  Non a caso protagoniste sono molte ragazze; molti documenti del movimento delle/degli studenti parlano un linguaggio sessuato; la determinazione ad agire esponendosi con un pensiero indipendente e a partire da sé prende le mosse da ciò che le/li ha toccati direttamente; come singolarità in relazione con altre e altri si vincolano in legami mobili e non opportunistici; fanno i conti con il presente senza perdere di vista il futuro, giudicano il mondo vicino ma vogliono dar senso al mondo più grande; sembrano conoscere la necessità di stare alla realtà e al contempo di sostenere il loro desiderio libero: i due registri  che a suo tempo Diotima ha nominato dell’”estremo realismo” e del “pensare in grande” [4].  Vengono dopo di noi. Ma da noi donne (e qualche uomo) che li abbiamo allevati, curati, educati senza soluzione di continuità tra casa e scuola, con pratiche quotidiane di civiltà e con parole attente a sostenerli nella loro ricerca di senso, hanno imparato. E, anche per vie che ci è difficile decifrare, e probabilmente non riusciremo mai a capire fino in fondo, hanno fatto tesoro del nostro lavorio simbolico, del desiderio di libertà e di amore del nostro agire,  della transitività delle relazioni politiche tra donne, e forse da lì hanno preso slancio per una politica sorgiva, autonoma e condivisa.

 

Alcuni mesi fa scrivevo…

Alcuni mesi fa, in occasione di un saluto pubblico a Letizia Bianchi, amica e collega dell’Università di Bologna con cui ho condiviso molte iniziative politiche, che si congedava avendo scelto le dimissioni da docente di ruolo per stanchezza e disaffezione rispetto all’istituzione universitaria, scrivevo alcune riflessioni che qui riporto.

Il palinsesto dell’Università – per usare un termine del mondo televisivo –  è rimasto di genere maschile. Del resto l’Università è storicamente una creatura maschile, che negli ultimi decenni ha incluso massicciamente le donne come fossero uomini. Non posso fare a meno di pensare al genere maschile quando guardo alla riconversione  aziendalistica dell’Università  e alle politiche  di riforma degli ultimi quindici anni: una serie continua di innovazioni calate dall’alto e governate da pochi, con interminabili procedure di normazione a cascata, per stare al passo con il processo di Bologna e adeguarci allo “spazio europeo dell’istruzione superiore”. Una riconversione a una fantomatica e inesistente eurouniversità avvenuta al ribasso, come capita quando si pretende di innovare facendo ogni volta tabula rasa del passato e non ascoltando ciò che i diretti interessati hanno da dire.

La mission dichiarata dell’università è favorire la competitività dell’azienda-Italia e dell’Europa nel mondo globalizzato. L’elemento della competizione soprattutto in senso economico-mercantile è divenuto centrale, e il simbolico corrispondente ha acquisito un forte valore performativo: basti pensare al lessico circolante per dire l’università e la nostra presenza al suo interno. Si tratta di un gergo pieno di anglicismi, a confermare l’egemonia e la paradigmaticità di una certa lingua-cultura scientifica anglosassone, quella più vicina alle nuove tecnologie e ai mercati. Le tecnologie informatiche, al cui utilizzo siamo ormai obbligate per qualsiasi procedura e scambio comunicativo, rafforzano il potere di un linguaggio denso di tecnicismi e  specialismi, per sua natura riservato a pochi, e confermano la piega  standardizzante, centrata sulla misurazione quantitativa della qualità, assunta dalla vita universitaria.

Il linguaggio aziendalistico ( v. clienti, crediti, punteggi, ecc.) investe i soggetti e le loro relazioni, e ancor più, le forme del loro pensare/pensarsi e del loro agire, neutralizzando le persone in carne e ossa con le loro biografie singolari e i corpi senzienti e desideranti, che sono sempre sessuati. Attorno al termine manager si ridefiniscono non solo i profili e le funzioni di chi abita l’Università professionalmente, ma anche le identità di chi la vive (o la attraversa) come studente. Segno di quanto stia incidendo nella vita dei singoli e della collettività l’ideale formativo nella Knowledge Society: imparare a essere manager di se stessi, a destreggiarsi tra le diverse, virtualmente infinite, opportunità di apprendimento (altrove l’ho definita “educazione liquida”) con tutto il carico della responsabilità della riuscita o del fallimento posto in capo a ciascuna/o, e l’avvaloramento dell’idea di autonomia come autosufficienza.

La questione della lingua non è irrilevante, come sappiamo bene noi donne, che difficilmente rinunciamo alla lingua materna[5], alla tessitura relazionale di parole che sanno stare vicine alle cose e sanno dirne il senso nello scambio con altre, altri, a partire dall’esperienza viva. Per poter stare con un po’ di felicità e di amore nel lavoro universitario, e sperare che un po’ di felicità e di amore circoli anche lì,  ho bisogno della lingua materna. Abitare la lingua materna è necessario per me ma, vedo, anche per le/gli studenti (e per colleghe, e qualche collega uomo), per esserci in ciò che ci capita e che insieme facciamo: è anche un ponte necessario verso linguaggi specialistici che rischiano altrimenti di rimanere formule vuote ed esteriori. E la lingua materna mi fa riconoscere che il senso dell’insegnare/apprendere non può essere l’incremento del tasso di competitività dei singoli individui e della società nel mercato globale.  Su questo punto vale la pena di aprire conflitti con parole e azioni che vadano, non contro, ma oltre l’Università disegnata istituzionalmente, e mostrino che è possibile darle anima e vita: dichiarando perciò il senso politico che esse hanno.

L’indurimento dei rapporti umani e le relazioni sempre più rarefatte e strumentali rimandano a una differenza maschile che, mutando volto, non ha tuttavia cambiato la sua passione per il gioco del potere né dimentica il piacere che ne trae. Competitività, indifferenza e cinismo sono diventati tratti tangibili: è disperante e doloroso assistere alla corsa individuale alla massima visibilità, al protagonismo, e accorgersi che quelli con cui potevi condividere rischiano di essere i tuoi nemici.

A differenza del passato, quando gli interlocutori centrali e periferici (Ministero, organi di governo nazionali e locali, ecc.) erano sufficientemente prossimi e individuabili, oggi la lontananza dai centri progettuali e decisionali (Europa in primis) e la loro quasi-evanescenza fa sì che il governo dell’Università sia realmente in mano di pochi, anche per la difficoltà di possedere una visione d’insieme della complessità. Ne consegue che la questione della libertà di insegnamento e di apprendimento si ripropone in termini mutati, con diminuiti margini di contrattazione.

Insegnare è un mestiere dell’umano, un mestiere che può aprire al divino. Esiste un investimento più femminile che maschile nella relazione con le/gli studenti, e molte donne ne hanno fatto la mediazione e la misura principale per poter stare con agio nell’università: ma anche questo spazio si è nel frattempo modificato.

In tanti anni di vita universitaria ho imparato che mi sono necessari le/gli studenti per insegnare sufficientemente bene. Ma chi ho oggi davanti a me quando entro nell’aula, quando parlo con una o uno di loro, durante i ricevimenti? Studenti? O giovani persone molto affaccendate (ciò che conta è altrove?), spesso schiacciate dall’ansia del futuro e della ricerca di un buon lavoro,  disorientate rispetto a sé e ai propri desideri, e perciò poco disponibili allo scambio, all’ascolto, al mettersi in ricerca insieme, alla fatica di pensare, in altre parole a imparare? Se ho davanti una piccola folla di giovani che si rappresentano e autorappresentano come clienti seriali dell’azienda università, pronti a consumare pezzetti di saperi irrelati e presto dimenticati, a rivendicare i propri diritti tarati sulla contabilizzazione di tempo, esami, voti, ad attraversare frettolosamente lo spazio-tempo universitario venendo da un altrove e andando verso un altrove molto più interessante, io non sono un’insegnante.  Se ho davanti a me ragazzi e ragazze (più questi che quelle) catturati dal senso utilitaristico e individualistico dello studio proposto dal mondo adulto come unico senso, io non sono un’insegnante.

E’ necessario molto lavoro su di sé per uscire da questo senso di irrealtà,  anche lavoro politico, se è vero che il cuore della politica è la trasformazione di sé. E’ necessario vedersi e vedere gli studenti con occhi diversi, a partire dalla relazione. E guardare anche ciò che, pur da posizioni diverse, ci accomuna: la scarsa libertà di insegnamento e di apprendimento, presi come siamo dentro le gabbie istituzionali delle nuove forme organizzative e stretti nella contraddizione di un simbolico che promette illimitate possibilità autorealizzative e una realtà che costringe a senso unico. Essere oggi studenti comporta poca libertà di scelta nei tempi e nei modi di costruzione personale del proprio percorso di studio e, insieme, paradossalmente, comporta molto disorientamento per la sovrabbondanza di offerte didattiche: ma loro non sanno che questo è un risultato dei cambiamenti, perché nei cambiamenti sono cresciuti e sono immersi; le aspettative familiari e le pressioni sociali sopravanzano i loro desideri o vocazioni, e poco valorizzano il senso non strumentale del percorsi di apprendimento,  la qualità soggettiva e relazionale dell’esperienza universitaria. Ma anche noi docenti siamo finiti, quasi senza accorgercene, nella spirale della serialità e della massima  intercambiabilità possibile. Se al centro sono le ragioni organizzative dell’università e gli imperativi della competitività economica, e non la relazione insegnanti/studenti, non le passioni personali di ricerca aperte al vaglio sociale in senso ampio, allora dobbiamo essere flessibili a cambiare interessi di ricerca, essere disposti a spostarci di sede, spostarci da un insegnamento all’altro per riempire le varie caselle dei piani di studio, come nel gioco degli scacchi: si può insegnare tutto o quasi, purché sia salvo il rispetto dei requisiti e dei vincoli degli ordinamenti.

Insegnare è un mestiere dell’umano: è necessaria una presa di coscienza di che cosa è essenziale e cosa non lo è, togliere molto del troppo pieno che satura l’Università, abitare, anche con ironia e autoironia, una leggerezza che ci permette di essere esigenti con ciò che veramente conta, aprire varchi perché entri aria, vita.

Come molte e molti di noi,  ho fatto esperienza che sapere è un piacere, che apprendere è fatica ma anche godimento. Non ci sono ricette, regole e neppure metodi per trasmettere questa esperienza. Ma si possono creare le condizioni perché ciò avvenga. In primo luogo a partire da sé come docenti. Occorre un rilancio costante di desiderio e di fiducia per far sì che il rapporto con gli studenti non si riduca a rapporto didattico funzionale all’espletamento dei compiti istituzionali. Con le giuste mediazioni si aprono relazioni vive, relazioni in cui anch’io imparo da loro e mi lascio portare in luoghi a me sconosciuti, mi autorizzo e autorizzo alla libertà, cerco di trovare e far loro trovare misura tra gli elementi necessitanti e la libertà, tra vincoli e desideri. So anche che la mia passione nell’insegnare si spegne quando sono costretta alla trasmissione di informazioni e alla ripetitività, nella didattica breve mordi e fuggi, ad adeguarmi al basso profilo richiesto.  Ho bisogno di sentire, almeno un po’, che lì, nel contesto e nella situazione singolare, il mio pensiero è in movimento, che posso sentirmi in ricerca e far essere in ricerca le/gli studenti, che posso creare con qualcuna/o di loro legami di passione intellettuale che si estendono anche fuori delle aule universitarie o del tempo del loro studio.  Molti colleghi  sostengono che solo con  i laureandi e i dottorandi, al massimo con qualche studente della laurea specialistica, ci si può permettere questo lusso: e sono gli stessi colleghi che poi trattano perfino i dottorandi come destinatari di pacchetti di  informazioni a senso unico.  A qualsiasi livello, pur con vincoli diversi, si può fare della relazione didattica un’occasione di ascolto di bisogni irrinunciabili e di scambio di desideri e di passioni, un luogo di affinità elettive, un’occasione di ricerca, nel senso di lavoro alto del pensiero non disgiunto dall’esperienza singolare. E a qualsiasi livello è possibile fare invenzioni per aprire dei varchi in quello che sembra una maglia compatta e inevitabile di regole, di comportamenti, di parole.  Varchi che possono diventare misure di un diverso modo di abitare l’Università e il tempo dello studio.

Spesso mi trovo a pormi domande sulla libertà di ricerca, oggi surrettiziamente limitata da criteri e parametri esteriori poco esplicitati ma ben presenti nel sistema premiante, il sistema internazionale[6]: criteri di merito ed eccellenza valutati in base ai parametri quali produttività, competitività e capacità finanziaria, che non sono parametri culturali, ma prettamente aziendali. Chi decide infatti il valore scientifico, culturale, sociale di una pubblicazione, di una rivista, di una ricerca? Come si costruisce autorità scientifica? Chi è oggi la comunità scientifica? Se il quesito riguarda l’Università, sarei tentata di rispondere: sempre più una casta iperspecialistica, spesso subordinata a interessi economici e di potere, e di genere maschile, anche se condivisa da non poche donne per amore o per forza. Un esempio di questo: di recente nel mio dipartimento una collega molto attiva nella governance accademica e molto convinta della necessità, per il bene di tutti, di rispettare il sistema premiante – pur avendo fatto in passato, a modo suo, un percorso vicino alla politica delle donne – ha dissuaso con determinazione le/i ricercatrici/ori più giovani a condurre un certo tipo di ricerche e a scegliere sedi di pubblicazione e riviste non accreditate, per quanto interessanti, dando una lunga spiegazione sui parametri di valutazione. La fila delle/degli aspiranti alla collocazione dei loro lavori nelle poche riviste accreditate perché realmente “scientifiche” è destinata ad ingrossarsi, di pari passo con la loro sottomissione al giudizio dei pochi che decidono che cosa è “scienza”.

Ma, come la scienza non è neutra o disincarnata, così le comunità scientifiche sono fatte di relazioni tra esseri umani in carne e ossa. Far parte di una comunità scientifica essendo uomo o donna fa differenza: se una donna ci sta con un senso libero di sé, il suo modo di relazionarsi è diverso e così pure le sue pratiche di indagine e il linguaggio per dire l’esperienza di ricerca, come hanno mostrato numerosi contributi femminili negli ultimi decenni.  Ma il senso libero di sé come donna va alimentato dalla pratica delle relazioni; quando questa viene messa in secondo piano, anche la qualità del pensiero ne risente: si può fare carriera, certo, come alcune hanno fatto talvolta riciclando al ribasso il pensiero della differenza sessuale in modo da renderlo compatibile con le misure accademiche, ma il “chi si è”, detto arendtianamente, non manca prima o poi di passare al vaglio della parte pensante e più viva della società, a cui risponde.

Se gli spazi di libertà si sono ridotti, è necessario trovare mediazioni e pratiche anche nuove.  Prendere le distanze da questo sistema premiante, continuare a pubblicare in sedi e riviste con cui ci interessa mantenere uno scambio, essere consapevoli di qual è per noi la fonte autorevole di giudizio e di misura, è un passo importante per tenerci libere e intelligenti. Tuttavia sento che questo è un punto di contraddizione che non si può chiudere né con l’eccessiva distanza, quasi estraneità, né con l’adeguamento al ribasso. Tenere aperta questa contraddizione, evitando anzitutto di cadere nel doppio registro del pubblicare per l’accademia/pubblicare per la politica delle donne, o di rifugiarci nel recinto protetto dei Women’s Studies, stare in questa tensione, ci aiuta a trovare una disposizione d’anima e di mente certo più faticosa ma favorevole alla creazione di un pensiero non disgiunto dal desiderio di politica, e forse anche ad aprire un conflitto pubblico con il sistema premiante  in vigore, quando se ne presenterà l’occasione.

Nella mia Università, l’Università di Verona, la presenza più che ventennale della comunità filosofica femminile Diotima ha reso possibile a me, a molte e molti, comprese studentesse e studenti, una misura alta, libera e pubblica, di lavoro intellettuale e di scambio culturale, riattivando la passione politica nell’Università e in molti altri luoghi. In forza dell’autorità simbolica e sociale guadagnata da Diotima, le studiose che vi appartengono o che vi fanno riferimento godono di un credito, certo sempre da rilanciare, che consente loro di utilizzare una pluralità di risorse editoriali, anche “eccellenti”, senza sacrificare il loro desiderio e la loro originalità.

Da Diotima e dalla Libreria delle donne di Milano è nato il Movimento di autoriforma dell’università e della scuola, che ha scommesso sull’idea che la riforma possa avvenire solo dall’interno, come cambiamento soggettivo e relazionale del modo di stare, di relazionarsi e di guardare a queste istituzioni; un movimento che, soprattutto nella scuola, ha dato e continua a dare guadagni importanti, con iniziative pubbliche partecipate e  con la creazione di una  lingua nuova e viva per nominare il mondo dell’istruzione, frutto delle relazioni  significative tra donne e con qualche uomo. Successivamente per iniziativa di Chiara Zamboni ha preso avvio all’Università di Verona una nuova pratica, di confronto e collaborazione tra scuola e università per una scommessa comune di libertà. Il Gruppo, costituito da donne e uomini, si è riunito periodicamente  per alcuni anni per scambiare  il senso politico del proprio lavoro di insegnanti (e studenti) di vari gradi e ordini di scuola e di docenti (e studenti) accademici. Si tratta di  invenzioni che ci hanno consentito di creare pensiero e vita universitaria senza sacrificare (troppo) desideri, libertà, piacere, importanza delle relazioni non strumentali.

 

Agio e disagio: che cosa sono per una donna, per un uomo, in relazione all’Università? Parlo a partire da me: non mi spaventano le prepotenze maschili, che indubbiamente esistono, ma da cui ho imparato a difendermi. Piuttosto mi preoccupano i conflitti femminili, che rimandano all’oscuro materno su cui Diotima ha a lungo riflettuto[7].  Affettività e amore orientano le scelte e i comportamenti femminili: il desiderio e la passione per la ricerca, l’amore per le cose fatte bene e utili anche ad altri, l’amore per quel pezzo di mondo che è l’università, che si aspira ad abitare come la propria casa proprio in forza della qualità delle relazioni che in essa vivono. Ma affettività e amore assumono anche declinazioni negative: penso in particolare alle difficoltà delle relazioni tra donne. Anche nello spazio pubblico dell’Università le relazioni e i conflitti tra donne non sono comparabili ai conflitti e alle relazioni maschili o alle relazioni donna-uomo, a causa dell’esistenza di un tratto assoluto di sostanza affettiva nelle relazioni tra donne, che spesso è fonte  di delusioni incolmabili, di rottura dei legami, di distruzione di un’impresa comune. Un tratto eccessivo che riporta all’umbratile della relazione materna. Al contrario, gli uomini sanno fare gioco di squadra e  hanno un altro modo di configgere tra loro, un modo poco coinvolto affettivamente che permette loro di salvare opere condivise e relazioni, nel rispetto delle posizione di potere e delle regole maschili d’azione nella sfera pubblica.

E vengo alla parola sofferenza. Negli ultimi anni il discorso pubblico usa molto questo termine,  ma, non a caso, esclusivamente per parlare della sofferenza finanziaria in cui versano le Università italiane. Come se non esistessero altre forme di sofferenza, certo anche legate a questa, ma che per fortuna la trascendono, trattandosi degli esseri umani che ogni giorno fanno l’università. Nei luoghi di lavoro e di studio l’imperativo della competizione e del successo individuale a tutti i costi si accompagna alla violenza dei ritmi just in time, della produttività che non contempla i tempi “morti”, in realtà vivissimi, della conversazione, dello scambio, della passività attenta, della riflessione solitaria o condivisa. Manca il tempo  necessario a creare e sedimentare  relazioni non strumentali, relazioni per il gusto della relazione, da cui possono nascere scambi vivi, momenti di intensità, pensiero, apprendimenti significativi reciproci. E il lavoro di ricerca, nutrimento dell’insegnare, è sempre più condizionato dalla fretta dell’efficienza, dai criteri di valutazione “oggettivi” in realtà discutibili e arbitrari, a prescindere dal  senso personale e sociale che può avere, per gli studenti in primis. E questi ultimi, le/gli studenti, vengono in tutti i modi sollecitati a velocizzare la loro permanenza nella formazione universitaria (anche nel luogo fisico-università, in cui la loro presenza è assimilata a quella di clienti al supermarket): la velocità di compimento del percorso di studio è diventato non casualmente un parametro ufficiale di valutazione della qualità degli Atenei. Ma le relazioni hanno bisogno di tempo, anche di molti momenti di passività, come il lavoro del pensiero. Quando la qualità viene tradotta in quantità in nome di una presunta obiettività, e la ricerca e l’insegnamento vengono tradotti in prodotti e prestazioni calcolabili, è messo fuori gioco l’elemento, non del tutto controllabile o esplicitabile perché tutto umano, del processo: che cosa avviene nel rapporto con il sapere? E con sé stessi, con i propri desideri, le proprie sconfitte, nel lavoro del pensiero? e come avviene un cambiamento di sguardo, un apprendimento trasformativo, la nascita di una passione, il declino di un interesse? Che valore hanno in tutto questo le relazioni tra docente e studenti e tra studenti stessi? E i rimandi tra e con docenti diversi? L’Università, come la scuola e altri luoghi in cui è centrale il mestiere dell’umano, vive e corrisponde alle sue finalità solo se alimentata da quell’invisibile, non calcolabile e non certificabile nutrimento rappresentato dall’attenzione alle relazioni, dall’ascolto di sé e dell’altro, dal coraggio di esporsi in prima persona nell’assumere giudizi, scelte e responsabilità, dall’intelligenza delle cose che viene dal farsi mediazione vivente.

Noto un diffuso disagio non solo tra le docenti, ma anche tra le amministrative, segretarie, bibliotecarie ecc. Tempo fa la direttrice della biblioteca centrale del polo umanistico della nostra Università mi raccontava della sua sofferenza nel dover assumere forzatamente l’abito del manager (rigorosamente al maschile), nell’adattarsi al nuovo profilo della sua professione, snaturata in funzione amministrativo-burocratica, e di come, per uscire dal senso di irrealtà, avesse dovuto ricorrere a un’invenzione, che definirei politica, per trovare senso e agio: la creazione di un’iniziativa periodica, all’interno della biblioteca, di presentazione di libri pubblicati da docenti dell’Ateneo, dal nome Io scrivo, tu mi leggi.  Un’occasione di confronto e di dibattito culturale aperta alla città e alla partecipazione degli studenti, che fa di una biblioteca universitaria un luogo di libera creazione-circolazione di pensiero. Avere altro/un altrove che dà misura per stare in bilico tra realtà e irrealtà senza farsi risucchiare da quest’ultima, è indispensabile.

Della sofferenza diffusa sono più donne che uomini a parlare: gli uomini o ne rimangono impermeabili o la subiscono come qualcosa di ineluttabile che fa parte del gioco; a volte si mettono lucidamente ai margini, ma non parlano e non se ne vanno. In questi anni ho visto non poche donne docenti (ma anche amministrative, segretarie ecc.) abbandonare l’Università, per il venir meno dell’agio di far bene il proprio lavoro, con un ritorno di senso. Il coraggio di andarsene è gesto di grande politicità se così lo si sa interpretare, e forse queste donne continueranno a insegnare e a ricercare, a “fare università”, altrove e con maggior agio. Ma se le donne continuano ad andarsene, portando con sé la sapienza della relazione viva e il dono della parola-lingua materna, l’università rischia di diventare un luogo poco umano e abitabile, carente di civiltà: come ci invita a pensare Marina Terragni[8] in un suo provocatorio e intelligente libro.

Quando i sentimenti sono messi al bando e non servono da guida, quando implodono per paura o esondano senza freno trasformando le relazioni umane in rapporti di inimicizia, sospetto, sfiducia, scontro,  la vita dell’Università è non vita.

Tuttavia con la pratica femminista dell’autocoscienza abbiamo imparato a leggere la sofferenza soggettiva,  personale,  come un sentire che ci accomuna ad altre e come cifra del  tempo presente, pur senza ad esso appiattirci: e questa presa di coscienza è già un atto politico, uno dei più importanti per la nostra indipendenza simbolica.

Prese nella stretta tra modernizzazione coatta e obsolescenza dei modelli tradizionali, che hanno perso il valore di scambio nel mercato ma anche autorità agli occhi di chi è lì per apprendere e spesso anche di chi è lì per insegnare, le Università rischiano sempre più di essere luoghi di veloce passaggio in cui si acquisiscono titoli in cambio di scarsa comprensione e molta sottomissione.

E chi ci vive ogni giorno come docente o come studente ne conosce gli effetti negativi di instabilità, di perdita di senso. Quasi senza accorgersi si trova ad abitare un luogo altro da quello che aveva amato o immaginato: non una comunità da costruire insieme giorno per giorno, ma un luogo segnato dalla  privatizzazione dei percorsi e dei destini, dalla frammentazione dei conoscenze e delle offerte didattiche, dal livellamento verso il basso delle aspettative di formazione, dal rarefarsi dei legami e delle relazioni.

Sottomesse all’imperativo dell’utile economico, sempre meno formative in senso forte e umano, poco capaci di creare legami sociali e legami tra vita e pensiero, faticano a trovare una misura propria, ad aprirsi ad un’antica e nuova sapienza: quella che ci fa riconoscere l’utilità dell’inutile. Non il gratuito, il disinteressato, come in genere si dice. Piuttosto quel ” inutile” che è pretesa alta di ogni esistenza umana: l’utile alla vita, alla creazione, all’amore, al desiderio, che sta in un’economia più grande e a cui si ha speranza di avvicinarsi quando si abbandonano le false scorciatoie, il risparmio di tempo, le tecniche, le mediazioni predefinite, l’agire strumentale: quasi sempre facendo una strada più lunga, e, sembra un paradosso, più a portata di mano. Questo ci dice una sapienza prossima all’esperienza femminile e a quella di uomini (pochi) che non si identificano con il potere.

Politica è anche andare incontro a  bisogni diffusi. E oggi esiste un bisogno diffuso di senso, anche se poco esplicitato: di dar senso all’insegnare/imparare, al fare scuola e Università. E’ allora un gesto politico dire che il senso dell’insegnare/dell’imparare all’Università non è quello disegnato dai cambiamenti ovunque in atto, un disegno simbolico che prescinde da me, da noi, da quello che ne sappiamo e dalle narrazioni che possiamo farne.

 

Vengo a un altro punto: lo spazio delle differenze. E’ uno spazio che va guadagnato, a partire dalla prima fondamentale differenza, quella sessuale. Dare un senso libero all’essere donne/uomini all’Università consente di tener conto e valorizzare tutte le altre diversità, fino alla singolarità di ciascuno, uscendo dalla standardizzazione seriale.

Sono le donne che hanno aperto al senso della differenza con il taglio della loro politica, della loro lingua e del loro pensiero.

L’Università contemporanea, post-patriarcale, è caratterizzata da una struttura di relazioni tendenzialmente orizzontale, reticolare: i rapporti tuttavia si vanno facendo sempre più gerarchici, fino a disegnare una piramide dalla larga base e dal vertice ristrettissimo. Una struttura che, pur in presenza di elementi residuali di patriarcato, chiamerei “fratria”, società dei fratelli, alla quale le donne sono ammesse come sorelle.  Una società centrata sulla competizione e sulla complicità tra uomini (basta pensare alla collegialità fittizia della presa di decisioni nel moltiplicarsi di riunioni e commissioni), a cui le donne faticano a sottrarsi. I conflitti esistono ma  restano latenti, perché  la frammentazione e la fittizia unità di elementi discordanti rendono difficile il loro emergere, necessario a riaprire il gioco del reale. Temo che oggi sia difficile fare veri conflitti, soprattutto nelle relazioni donna-uomo. Con la politica delle differenza sessuale abbiamo scoperto invece che i conflitti sono necessari nella misura in cui sono occasione per tagliar via il superfluo e lasciar emergere quello che altrimenti rimane nascosto sotto maschere e orpelli: nei conflitti si toccano infatti nuclei profondi e quel che è essenziale per noi, il nostro elemento non negoziabile, si rende visibile ai nostri occhi e a quelli degli altri. Con una certa sapienza è possibile circoscrivere il conflitto al contesto, alle situazioni concrete, senza perderci nel dilemma fantasmatico del tutto o niente, e incrementare così un agire efficace  e politicamente intelligente.

Resta aperto per me il problema di quanto la presenza femminile nell’Università porti la cifra di un libero desiderio e della fedeltà all’essere donne, o sia piuttosto esito dell’inclusione in un mondo maschile. Nel sistema di alleanze mobili e strumentali le donne sono incluse a patto di cancellare la loro differenza, e del femminile viene accolto al più il volto benevolo del maternage (pazienza, cura, disponibilità a collaborare, a farsi carico, a relazionarsi ecc.) ma non l’elemento dell’autorità e la capacità di operare tagli nell’ordine di significati già dati. E vedo molte donne mosse dall’ambizione e dal bisogno di dominio che rischiano di annullare il di più della loro differenza, quella capacità libera di sentire, vedere, giudicare e agire che viene dalla propria esperienza femminile della vita e delle relazioni, e che potrebbe trasformarsi in misura alta, autorevole per tutti. E parlo non di potere – che sottende piuttosto un bisogno maschile di primeggiare difendendo il “proprio” –  ma di dominio, come tendenza femminile a tenere tutto sotto il proprio sguardo e nel proprio raggio di azione, e dunque come volontà di esserci, in nome del bene comune, lì dove si decide e si controlla:  in questa tendenza vedo riproporsi più il fantasma dell’onnipotenza materna che la dura fattualità dello strapotere paterno.

La presenza femminile, ormai reale in tutta la società, ha fatto saltare la storica divisione tra sfera privata e sfera pubblica e con essa anche la spartizione del mondo in due: di qua gli uomini con i propri codici etici pubblici, di là le donne tutrici dei valori morali privati. E  tuttavia permane l’antico gioco ripetitivo per cui nel mondo pubblico della politica, dell’economia, delle istituzioni (compresa l’Università) che regolano la convivenza sociale continuano a valere il potere, la forza, la legge e l’interesse di pochi, mentre il privato e il domestico si sosterrebbero sulle virtù della solidarietà, del gesto disinteressato e dell’amore.

Alla luce di queste considerazioni mi chiedo: tra fratelli e sorelle si può aprire un altro gioco, il gioco libero della differenza sessuale, in cui le virtù “domestiche”, che sono anche virtù economiche dato che le donne sanno fare molto con poco,  possano diventare virtù della sfera pubblica? E’ una  domanda (e una scommessa) che mi sta a cuore.

Se una donna esce dallo schema dell’oppressione e dell’uguaglianza e si fa guidare, in forza di relazioni significative e politiche con altre donne, dal desiderio di espressione libera, coniugando amore per il mondo (per l’Università) e amore/fedeltà a sé, questo diventa principio di orientamento anche per altre donne e per uomini. Lo vedo nei pochi colleghi maschi sensibili e intelligenti, poco legati al potere, che tenderebbero ad estraniarsi se non trovassero nei varchi di libertà aperti da donne una misura anche per sé.  E, pur con processi intermittenti, possiamo riconoscere nelle nuove generazioni,  soprattutto femminili, i segni lasciati dalla politica e dal pensiero delle donne, con declinazioni nuove e talvolta originali: esempio evidente ma non unico è la recente nascita di Collettivi di studentesse un po’ ovunque nelle Università italiane attorno al tema della violenza alle donne, un imprevisto interessante che mobilita anche uomini e rappresenta una continuazione, pur nella discontinuità generazionale, di un confronto e scambio libero tra donne e uomini già attivo da tempo, anche se non diffuso. Un confronto onesto e  una intelligente, appassionata ricerca comune, ciascuna e ciascuno a partire da sé, dalla propria differenza, di forme nuove di civiltà di rapporti. E tra gli studenti maschi cresce l’attenzione alla differenza sessuale e alla propria differenza maschile, con un misto di paura, curiosità, attrazione, desiderio di mettersi in gioco, e cresce la fiducia in docenti donne che stanno in fedeltà a sé.  Sembrano avvertire anche loro che il presente è più ricco di quanto appaia, e che il mondo dell’Università si può abitare abitando un altro orizzonte simbolico.

Ma bisogna amare il mondo avendo il senso delle differenze che lo abitano, e amare la ricerca della propria verità, da guadagnare a partire da sé in relazioni significative con altre/altri,  più che il potere, perché si possa costruire un altro ordine di rapporti tra uomini e donne, una nuova civiltà dei due sessi nello spazio universitario come in ogni luogo della società.

 

Energia pensante  e pratiche inventive

Questo scrivevo alcuni mesi fa; e da questo sentire e sapere, poco o tanto che sia, per anni ho cercato di farmi orientare nella relazione con le/gli studenti che mi capitava di incontrare: in ogni occasione, dalle lezioni in aula ai colloqui individuali, dalla guida alle tesi di laurea alla gestione del dottorato di ricerca, dai colloqui di esame alle conversazioni informali dentro e fuori la sede universitaria.

I riflessi di questo agire, mio e di altre docenti dell’Università legate a Diotima, le loro ricadute trasformative sul modo di essere di studentesse e studenti, non hanno assunto un andamento continuo e visibile: nel corso degli ultimi anni, in particolare, con il rafforzarsi  della visione organizzativistica e funzionalistica dell’Università, sono sembrati inabissarsi, sparire dietro più visibili comportamenti di indifferenza, fretta, individualismo. Ne abbiamo sofferto, spesso ci siamo fatte prendere dallo scoramento, ci siamo interrogate molto, a volte rischiando di forzare volontaristicamente le situazioni. Ma ora sappiamo che le cose più importanti avvengono nella discontinuità, nelle rotture che si aprono improvvisamente, e che i processi vitali anche da punto di vista politico sono segnati dall’intermittenza. Tra visibile e invisibile, la rivoluzione femminile ha prodotto anche quell’ “infiltrazione sotterranea e benigna”[9] da cui il nuovo movimento di questi giorni sembra attingere energia pensante e creatrice.

La mobilitazione delle/degli studenti, preceduta e accompagnata da quella delle maestre e delle madri in ogni parte d’Italia, sembra aver accolto un sentire diffuso, ormai circolante anche nel suo lato impersonale, ossia che la parola femminile è nelle cose e fa ordine simbolico.  E’ il sentire, per molte e molti forse precedente alla presa di coscienza, che senza la differenza femminile libera qualsiasi istituzione, come qualsiasi forma di vita pubblica, è destinata a deperire e autodistruggersi. Con la voce nostra e delle/dei nostre figlie/i e studenti, la differenza femminile, che l’Università ha tentato in tutti i modi di cancellare, si fa presente e viva, apre il conflitto e lo porta all’altezza necessaria, quella che nessuna organizzazione maschile, dalle più corporative lobby di docenti e rettori ai partiti, ai sindacati,  ha la forza di  raggiungere. Possiamo dire che la politica sia ritornata a vivere nello spazio universitario, dopo anni in cui chi vi lavorava e chi vi studiava ha visto la propria presenza interpretata in modo funzionale all’interesse esclusivo del mercato neoliberista, e resa irrilevante per la società e la politica? Credo di sì.

In Italia, forse prima che altrove data la piega autoritaria e spregiudicatamente mercantilistica assunta da chi ci governa – con brevi parentesi – da quindici anni, è uscito finalmente allo scoperto il vero volto di una deriva politica che ovunque pretende di ricondurre la convivenza mondiale a una governance ristretta a  pochi, e le questioni sociali a questioni tecniche. Un modello che non era stato prima contestato nella misura in cui non si è proposto come ideologia, ma come modello tecnico-organizzativo adatto a rispondere a problemi tecnici.  E una parvenza tecnica, neutra e neutrale, hanno assunto le varie misure adottate dalle politiche educative a livello planetario e nazionale negli ultimi decenni, sottoposte al condizionamento di potenti organismi quali il WTO, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale. La formazione, ancella del mercato insieme alla politica, e diventata essa stessa potente e libero mercato, ha preso il posto dell’educazione e della cultura aperte a tutti, e ha risucchiato nelle sue logiche competitive e produttivistiche l’intera vita delle persone e  le forme di vita collettive, eliminando la possibilità del conflitto. Tutto ciò in nome di una libertà identificata con la libera concorrenza, e in nome di una crescita sociale fatta coincidere con sviluppo economico e capacità di competere a livello globale.

Le recenti catastrofi finanziarie a livello globale, segno dell’ovvia assoluta incapacità di autoregolazione del mercato capitalista e di chi l’ha sostenuto politicamente, si sono incaricate di smentire, se ancora ce ne fosse bisogno, la favola del progresso infinito. Le/ i nostri studenti, una intera generazione a rischio di presente e di futuro,  con ragione hanno assunto come paradigmatica la frase “ Non pagheremo noi la vostra crisi”. E con intelligenza politica hanno scelto la parola crisi per dire non solo la catastrofe economica, ma, ancor più, la caduta di un intero modello di società e di civiltà, forse quella caduta che la politica delle differenza ha nominato come fine del patriarcato.

“studiareconlentezza@gmail.com” è il nome  significativo di uno dei blog da loro creato, per dire un bisogno e un desiderio non sopprimibili, un bisogno e un desiderio che anche noi docenti e ricercatrici sentiamo, ma troppo spesso abbiamo messo a tacere. E con inventiva,  serietà e divertimento, hanno  dato forma pubblica al loro interesse per la cultura e lo studio, portando insieme alle/ai docenti le lezioni, i corsi, i seminari fuori delle aule, nelle piazze e nelle strade italiane, a contatto con bambine e bambini, con anziani, con persone comuni, e facendo dell’Università un laboratorio culturale e politico, un riferimento visibile, prossimo e aperto all’intera cittadinanza: “L’università e la scuola sono di tutte e di tutti. La cultura è ciò di cui siamo affamati”, si legge a conclusione della loro lettera aperta a tutta la città. Condivido le loro parole, un invito forte a difendere l’istruzione e la cultura come beni pubblici irrinunciabili a fronte delle crescenti spinte alla loro privatizzazione; le interpreto come espressione anche di una giusta aspirazione a conseguire un titolo di studio per  un lavoro dignitoso, ma soprattutto del desiderio, troppo a lungo rimosso dal mondo adulto, di una formazione per sé e non per il profitto, per apprendere a convivere pacificamente e non per addestrarsi alla lotta economica, per comprendere la propria vita e il mondo e non per raggiungere in  fretta e superficialmente crediti e punteggi nell’ottica di una continua, astratta, certificazione di conformità come “risorse umane” del capitale. Un’ottica su cui si sono appiattite anche le forze della sinistra, partiti, sindacati, intellettuali, più attenti a far funzionare la macchina organizzativa e produttiva che a interrogarne il senso.

E’ il senso, invece, la posta in gioco di questi giorni: dunque si tratta di un conflitto simbolico su scuola e università. L’ho capito, l’abbiamo capito proprio partecipando al dibattito in corso, osservando le movenza di alcune colleghe e colleghi sulla scena pubblica, ben diverse da quelle consuete, che sembravano appiattite sul consenso. L’ho capito  guardando le nostre studentesse, i nostri studenti, anche quelli con cui abbiamo condiviso giorni e ore di lezione, di colloquio, di esami, di riunioni, e che credevamo di conoscere bene, di poter giudicare, non di rado etichettandoli come superficiali, opportunisti, privi di interessi. Lì con noi ci sono loro, promotori e protagonisti intelligenti di iniziative, assemblee e manifestazioni pacifiche, proprio quelle e quelli che disertavano le riunioni  dei vari organi collegiali, quelli che di tanto in tanto con gli occhi cercavamo nell’aula dei consigli di Facoltà  per attirarne l’attenzione su qualche problema e averne l’appoggio. Non c’erano o c’erano sempre meno. Avevano capito che quelli non erano i luoghi interessanti della politica, della creazione di senso e dello scambio culturale, ma solo  le sedi noiose di un’amministrazione burocratica fittiziamente collegiale, della gestione – travestita da democrazia rappresentativa – di piccole porzioni di potere. L’ assenza loro e di molte altre/i dalla vita dell’università era un modo per segnalarne la mancanza di vita, il deserto della politica:  un’obiezione muta che ha saputo  cogliere nel presente l’occasione grande di trasformarsi in parola pubblica, in giudizio, in progetto.

 

In una giornata fredda di fine ottobre sono con  altre e altri in attesa che si muova il corteo degli universitari, per congiungersi con quello delle scuole di ogni ordine e grado: insieme diventeranno una grande, tranquilla, allegra ed efficace manifestazione che percorre la città e forse un po’ la smuove. Mi volto e vedo una studentessa, anche lei in attesa che il corteo parta, una ragazza piccola, di solito dall’aspetto timido e dimesso, la classica studentessa poco brillante. Non posso non riconoscerla mentre chiacchiera ora animatamente con altre con un guizzo di felicità negli occhi: quattro volte ha ripetuto un mio esame scritto, non sapeva scrivere. Al terzo insuccesso l’ho invitata a parlare con me, mi ha chiesto la clemenza del voto minimo per superare l’esame, non l’ho accontentata perché non si accontentasse. Ho preferito invece mettere in atto una pratica: le ho consigliato di utilizzare tutto il tempo disponibile fino all’appello successivo, comprese le vacanze estive, per farsi aiutare da un’amica più brava, per imparare a pensare-scrivere meglio dedicandosi ogni giorno alla scrittura di un breve testo. A settembre ha superato l’esame: ha voluto parlarmi, mi ha ringraziato per la fiducia, per averle fatto conoscere l’efficacia di una relazione di disparità, e, ancor più, per averla incoraggiata a misurarsi, come giovane donna, con una pretesa alta avanzata da una donna più grande: scoprire e prendersi la libertà della sua energia pensante.

E’ quanto hanno fatto in questi giorni decine e decine di maestre in tutta Italia, donne abituate a far bene e con grande responsabilità il loro mestiere di insegnanti di bambine e bambini piccoli ma non a metterlo in parole: in relazione tra loro hanno sprigionato la loro energia pensante,  si sono autorizzate a dire e scrivere pubblicamente, a far circolare il senso alto del loro far scuola, a difendere con la politica più elementare, quella della lingua materna, della qualità del senso, delle relazioni, la loro opera di civiltà e la parte migliore della società italiana.

 

[1]              Riprendo questa espressione da un articolo di Luisa Muraro, Non abbiamo finito di capire, “MicroMega”, 6, 2006, p. 140.

[2]              Clarice Lispector, La passione secondo G.H., tr. it., La Rosa, Torino 1982, p. 5.

[3]              Il passaggio dalla società del disciplinamento a quella del controllo, avviato dai paesi occidentali ma in atto tendenzialmente a livello mondiale, restringe il ruolo delle tradizionali agenzie educativo-scolastiche, e punta invece a modulare la percezione e i comportamenti delle persone sostenendo e potenziando altre e più nuove agenzie, per lo più private (tra cui i media e le tecnologie della comunicazione), nell’ottica del lifelong-learning.

[4]              Diotima, Mettere al mondo il mondo, La Tartaruga, Milano 1990  (Traer al mundo el mundo, Icaria, Barcelona 1996).

[5]              Le donne hanno da tempo aperto la questione della lingua materna nei luoghi pubblici. Si veda ad es.: Eva-Maria Thüne (cur.), All’inizio di tutto la lingua materna, Rosenberg & Sellier, Torino 1998, e  Vita Cosentino (cur.), Lingua bene comune, Città aperta, Troina 2006.

[6]                Si veda la rilevanza crescente dell’impact factor nella valutazione dei “prodotti” di ricerca in tutte le aree disciplinari. L’impact factor risale in realtà al ISI (Institute of Scientific Information), un’azienda privata americana con scopi di lucro, nata negli anni ’60, che ha favorito i grandi editori commerciali e decide il valore scientifico di una rivista, di un articolo, di un ricercatore ( v. Alessandro Figà Talamanca, L’Impact Factor nella valutazione della ricerca e nello sviluppo dell’editoria scientifica,  “IV seminario Sistema informativo nazionale per la matematica SINM 2000”, Lecce, 2 ott. 2000). E oggi tra i parametri di merito individuati dalle 13 Università italiane autoproclamatesi “eccellenti”, che si sono consorziate di recente per difendere i loro interessi lasciando le altre (e le/i loro studenti e ricercatrici/ori) al destino di Università di serie B, troviamo la recensione in almeno una delle più autorevoli classifiche accademiche internazionali (es. quella del quotidiano The Times di Londra o dell’Università Jiao Tong di Shanghai).

[7]              Diotima, L’ombra della madre, Liguori, Napoli 2007.

[8]              Marina Terragni, La scomparsa delle donne. Maschile, femminile e altre cose del genere, Mondadori, Milano 2007.

[9]              Ida Dominijanni, Nella piega del presente, in Diotima, Approfittare dell’assenza, Liguori, Napoli 2002, p. 202. Sull’intermittenza v. l’Introduzione di Luisa Muraro nello stesso libro.