diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 3 - 2004

Al Lavoro

Approfittare della libertà femminile. Dare anima e corpo al lavoro e alla formazione in tempi di postfordismo.

Muoversi tra le ambiguità e le ambivalenze che caratterizzano il tempo presente, definito e percepito come tempo di cambiamenti veloci e critici, e da lì praticare vie d’uscita non  utopistiche né etiche, ma politiche, non è facile. Tempo presente: tempo di una crisi tras-formativa che si riflette anche sulle forme del lavoro e sull’istanza della educazione permanente/lifelong-learning, nel mentre ne mette finalmente a nudo le ambiguità e le ambivalenze, dopo l’orgia dei bilanci ottimistici sul nuovo scenario postfordista del lavoro e della formazione apertosi negli ultimi decenni.

Stare nel cuore del cambio di civiltà attuale sapendo connettere la nostra esperienza locale/contestuale al mondo più ampio, “dare senso a ciò che accade mentre accade”[1] a partire da  ciò che ci accade e ci risulta in prima persona e così metterlo nello scambio con altre e altri, sono passaggi necessari a piegare in una direzione o in un’altra l’incompiutezza del presente. Passaggi simbolici, mediazioni di senso, modificazioni mentali e  culturali che non scindono esterno e interno, ascolto di sé e ascolto della realtà, e oggi quanto mai necessari per modificare anche il piano sociale.

Siamo infatti in un incerto crinale[2]: detto in estrema sintesi, il presente può prendere la piega di una deriva ulteriore verso il disordine simbolico e sociale e la disumanizzazione delle guerre economiche (per non parlare delle altre), oppure si può trasformare in leva per “creare e ricreare la vita e la convivenza umana”[3] , per passare ad un altro ordine di rapporti, con noi stessi, con gli altri, il mondo.

Nelle società occidentali avanzate, basti pensare ai documenti europei dei primi anni ’90, il secolo trascorso si è chiuso all’insegna di istanze ideali di democratizzazione-modernizzazione, di progresso economico, culturale e sociale delle vite singole e collettive, al cui centro stava il binomio formazione-lavoro coniugato con lo sviluppo tecnologico-conoscitivo da un lato, con l’universalizzazione e l’articolazione del sistema dei diritti dall’altro. Fino a investire di tali istanze ideali le intere biografie dei singoli e delle collettività, dalla primissima infanzia all’ultima età e in ciascun ambito del vivere personale e sociale; fino a concepire l’intera società come organismo il cui funzionamento e la cui salute dipendono dalla conoscenza diffusa aperta all’innovazione, dall’apprendimento continuo, che diventa un bene sociale di tal valore da rappresentare la sua stessa missione (learning society).

I drammatici e inattesi eventi degli ultimi anni si sono incaricati di mettere allo scoperto la favola del progresso lineare e continuo, a cui neppure le sinistre sono state estranee.  Hanno messo in luce tendenze già in atto, e ora divenute evidenti e leggibili, quelle tendenze che stanno portando non solo i paesi occidentali ma l’intero pianeta verso un impoverimento delle risorse naturali ed economiche e delle relazioni umane, verso uno sviluppo distorto  fonte di sofferenza e di incertezza, mentre la promessa di libertà e benessere per tutti attraverso il lavoro e la conoscenza si trasforma in strapotere di pochi.

Il postfordismo e il capitalismo globalizzato hanno dovuto dimettere la loro veste inaugurale di apertura pressoché illimitata di possibilità e di opportunità, di flessibilizzazione positiva dei percorsi lavorativi, formativi, esistenziali, di crescita conoscitiva come leva di sviluppo per ciascuno e idealmente per tutti.

Ne è uscito il volto vero del capitalismo neoliberista, deregolato e deregolante, e non solo a livello di singoli distretti produttivi o ambiti regionali, ma di Governi statali e di istanze internazionali: la Banca Mondiale, il WTO (e GATS), l’OCSE, perfino la UE ne sono un esempio[4] . La scuola, la formazione, l’educazione lungo tutto l’arco della vita, e l’intera vita, compreso il lavoro, sono oggetto di riforme il cui simbolico non si preoccupa neppure più di nascondere il vero obiettivo: “sottomettere tutte le dimensioni della vita umana ai criteri del libero mercato”[5]. E lo si fa attraverso la commercializzazione-privatizzazione progressiva di beni comuni e collettivi: la cultura, la formazione, la ricerca, la salute, la sicurezza, la socialità, l’ambiente…trasformando quei beni comuni in beni accessibili e consumabili individualmente, per ”merito e capacità personali”, in nome di una falsa libertà, e riducendo la loro acquisizione a funzione e vettore non della crescita umana personale e collettiva, ma dello sviluppo di un’economia (e di una vita) sempre più individualistica e competitiva.

L’attuale passaggio dal  paradigma dell’educazione permanente a quello del lifelong learning sposta fortemente l’accento su chi apprende, fino a idealizzare il self-directed learning, e lascia trasparire un’idea utilitaristica di formazione intesa prevalentemente come bene di consumo. Si carica sulle spalle del singolo individuo il compito, la responsabilità, il rischio della sua formazione, e si sottrae valore e significato alla dimensione intersoggettiva, sociale, della formazione come bene pubblico: quasi dimenticando che saperi e conoscenze (compresi quelli attuali) non hanno validità assoluta, oggettiva, neutra, ma sono sempre frutto di relazioni sociali contingenti e perciò modificabili, e che l’apprendimento significativo non può prescindere dalla centralità delle relazioni educative e umane. Riprendendo le parole di María Zambrano, educare  “será ante todo guiar al que empieza a vivir en esta su marcha responsabile a través del tiempo. Educarle será despertarle o ayudarle a que se despierte a la realidad en modo tal que la realidad no  sumerja su ser, el que le es proprio, ni lo oprima, ni se derrumbe sobre él”[6]. Educare è preparare alla libertà in una dimensione di libertà, sviluppare le possibilità dell’esistenza umana in uno spazio di parola, di azione e di scambio con altri esseri umani, e perciò pubblico e politico, e non consiste nello spingere l’individuo alla libertà fittizia di scegliersi la propria formazione nel mercato globalizzato (e sempre più privatizzato) della società della conoscenza, invitandolo ad acquisire più in fretta possibile, anche attraverso incentivi, stock di conoscenze e di competenze utili a diventare capitale umano, a competere individualmente come produttore/consumatore. Tra l’altro, le teorie del capitale umano si sostengono su un modello già di per sé discutibile: un modello che parte dall’idea che i fenomeni sociali abbiano origine nelle condotte individuali, presuppone che gli esseri umani siano individui razionali, capaci di identificare con chiarezza il rapporto fini-mezzi, e dà per scontato che il mercato del lavoro abbia una capacità di assorbimento costante e  proporzionata al livello di formazione delle persone.

Il nuovo spirito del capitalismo[7] sembra ormai dominare non solo l’ambito del lavoro ma anche quello della scuola e della formazione, per non parlare del resto. E sostituirsi  all’anima  radicale e egualitaria che nei lontani anni ’60-70 ha ispirato e mosso la  speranza di cambiamento, la speranza di un altro ordine politico, sociale e culturale. Sembrerebbe la chiusura del cerchio di un capitalismo onnivoro, per di più irridente, nella sua appropriazione di anime e corpi di uomini e di donne, per l’uso deformante ma accattivante di parole come libertà, intelligenza, immaginazione, creatività, relazioni, linguaggi, comunicazione, rubate al simbolico di quegli anni.

Quali sono le alternative? affidarsi all’etica, al richiamo a valori e regole, a un dover essere (diritti, giustizia, solidarietà ecc.) trascendente il presente e orientante il futuro? Coltivare speranza e sogno di un avvenire migliore, da soli o in piccole nicchie? ripartire da una politica antagonista?

Sembra mancare la capacità di vedere nel presente qualcosa che già è presente: la libertà femminile, parole e pratiche femminili ancora troppo poco visibili, ma che, agendo nella realtà, stanno già aprendo un altro ordine di rapporti. Non nel modo antagonistico di molta politica di sinistra e in parte no-global, o concependo la politica come macchina per far accadere le cose (organizzazione, ruoli, strategie, rappresentanza), ma percorrendo strade affermative pur se oblique, cogliendo in modo intelligente e creativo le occasioni che il presente offre, mettendo nel mondo altri sensi di ciò che accade, e sapendo disfare  facendo. Politica come intensificazione delle mediazioni nell’ordine del poter essere e del poter accadere, senza fissazioni a ideologie, identità acquisite, rendite di posizione; piuttosto come continua apertura ad altro, altro poter essere e accadere, e dunque  cambiamento di sé e del reale al presente.

Strade oblique e impreviste, che si sottraggono alle reali e/o immaginate strettoie del nostro tempo: da un lato l’ineluttabilità del capitalismo competitivo, dall’altro la necessità di regole democratiche per frenare il disordine esistente. Strade femminili – ma accessibili anche agli uomini – che fanno tesoro del partire da sé, una pratica nata dal movimento delle donne e diventata centrale nella politica della differenza sessuale, ma anche una pratica familiare alla maggior parte delle donne, con o senza femminismo. E al presente sta diventando riconoscibile una politica delle relazioni attuata di preferenza da donne, che sa che il mondo non è consegnato tutto alla logica del dominio e del potere, e scommette su altro già ora possibile grazie alla forza ordinante di relazioni di fiducia, di disparità accettata, di autorità tra esseri umani, così come è stato all’inizio della vita, nella relazione materna.

 

  1. Esperienza femminile del lavoro e della formazione: il taglio della libertà femminile

La presenza ormai diffusa delle donne nel mondo del lavoro e della formazione non si accompagna automaticamente a libertà, anche se a spingerle verso entrambi, lavoro e formazione, sappiamo essere, assai più che per gli uomini, un movente di libertà e non solo di necessità. E’ questo uno dei motivi, forse il principale, dello scarto femminile rispetto alle politiche di inclusione riguardanti il lavoro e la formazione; politiche che si sono avvicendate nel tempo riarticolandosi su obiettivi ritenuti sempre più avanzati, a livello europeo e in altre regioni del mondo. Pensiamo ai documenti di programmazione e di indirizzo, che a cascata si sono succeduti dall’Unione Europea fino all’ultima delle realtà locali negli ultimi decenni, ai programmi (es. Now) finalizzati a superare, in nome della parità, la segregazione formativa e professionale donna-uomo spostando massicciamente le donne nei territori tradizionalmente maschili, considerati di maggior prestigio e sviluppo. Quanto auspicato non è avvenuto, se non in parte, e forse per quella parte si trattava di una scelta reale, cioè libera, con o senza politiche ad hoc. Molte donne, anche le più giovani, continuano a preferire corsi di studio e offerte formative afferenti all’ambito delle scienze umane, sociali, della vita,  pur  avendo molte altre scelto percorsi di studio poco familiari alle generazioni femminili precedenti. Ne è derivato l’effetto di un grande e imprevisto allargamento di opzioni femminili, indice di un sapersi muovere con libertà, anche rischiando, cosa che al contrario per la parte maschile non è avvenuta, interessando gli studi umanistici e sociali solo una esigua minoranza di giovani[8].

Analogo discorso si può fare per le scelte lavorative-professionali. Anche a questo proposito le politiche ufficiali (comprese quelle sindacali) di inclusione delle donne nelle professioni e nelle carriere maschili non hanno colto nel segno, perché hanno sottovalutato l’elemento di eccedenza e di imprendibilità delle donne, la loro libertà. L’ottenimento della parità legale, economica e sociale con gli uomini non corrisponde a un sentire e a un desiderio diffuso femminile, benché molte donne si siano avvantaggiate qua e là di interventi istituzionali, e in parte non piccola si credano ancora destinate, nel lavoro, a omologarsi ai canoni maschili, fino ad assumere la maschera ipervirilizzata di chi vuole stravincere. A ben vedere,  non è auspicabile neppure per il progresso delle nostre società e delle nostre vite, che chiede invece, per essere realmente tale, di rappresentare un progredire verso forme più alte di civiltà di rapporti tra le differenze – anzitutto la differenza uomo/donna – in gran parte ancora da inventare, relazioni di differenza che si affermino al posto dell’universalismo astratto dell’uguaglianza (e del capitale):  forme culturalmente dense,  che sostituiscano all’uso della forza  e del potere (il ricorso al quale è il fallimento della politica) mediazioni di pensiero e di parola capaci di allargare il presente dei singoli e della vita associata al suo di più, e di tenere aperto alla realtà che cambia un senso alto del nostro esistere comune. Con quale metro misurare il progresso e lo sviluppo di una società? Le donne  sanno che non è certo il Pil o il reddito pro capite la ricchezza cui aspirano per sé e per i propri figli e figlie, ma anzitutto avere nelle proprie vite persone su cui poter contare, con cui condividere gioie, dolori e desideri, con cui scambiare il senso del proprio esistere, con cui allargare e intensificare il proprio orizzonte di vita e di pensiero. E ormai è dimostrato che perfino nei paesi più poveri o più avversi alla libertà femminile il desiderio delle donne di apprendere, anche di istruirsi dov’è possibile – continuando tuttavia a far tesoro del bene primario delle relazioni, degli scambi quotidiani con altre e con altri, per il guadagno di piacere, di sapere, di libertà che ne deriva – rappresenta un’opportunità di sviluppo, perché spiega, più di quanto possano fare le grandezze macroeconomiche, l’andamento demografico di un paese, i livelli di mortalità infantile, il grado di salute della popolazione e dell’ambiente, la presenza di forme di microimprenditorialità dal basso.

Questo desiderio e questa capacità femminili di vivere e di apprendere nello scambio vivo con altre e con altri, in relazioni di differenza, ciò che è umanamente più prezioso (rapporti significativi, parole, affetti, attenzione, cura) e per le donne non riducibile alla misura del denaro, è alla base di quello che, con una parola tecnica ormai diffusa, si chiama Capitale sociale, ossia capacità di fare legame tra persone e gruppi e patrimonio di fiducia, quali componenti fondamentali degli scambi e come leva per la rigenerazione locale. Con altre[9] chiamerei le pratiche generatrici del capitale sociale con l’espressione di “politica prima”, per distinguerla dalla politica seconda, quella corrente, basata sulla rappresentanza e sulla rappresentazione mediatica. Una politica elementare, fondante, e alla portata di tutti, ma preferibilmente agita da donne. Politica come pratica di vita, relazioni che fanno vivere e convivere civilmente e danno senso, che soddisfano non solo bisogni materiali ma anche bisogni dell’anima, che creano luoghi di incontro e li mantengono vivi; relazioni che mescolano saperi e ne creano di nuovi a partire dall’esperienza e dalle pratiche, e dunque saperi che hanno origine nell’intreccio tra flusso delle azioni e spazi di pensiero, nella ricchezza e complessità delle situazioni concrete, e non nella trasmissione di esperti esterni.

L’importanza del capitale sociale è stata ben segnalata con questa parole: “Dagli squilibri nella dotazione del capitale sociale derivano differenze profonde sui livelli di istruzione e di benessere dei bambini, sulla sicurezza dei quartieri, sulla prosperità economica, sulla salute dei singoli e sullo stato della democrazia, fiaccata da una politica sempre più mediatica e a distanza”[10].    

Una differenza femminile consapevole di sé e libera è dunque necessaria per uscire dal senso mortifero e disordinante del nostro vivere sociale diviso dagli egoismi. Può sembrare paradossale e provocatorio dirlo oggi, dopo decenni di femminismo, ma sentirsi e sapersi “sesso mancante” è un guadagno di libertà femminile e un potenziale di ricchezza disponibile per tutti. Per essere noi stesse, donne, abbiamo capito che è fuorviante rincorrere continuamente, con rivendicazioni o altro, la compensazione della mancanza. Per essere se stesse le donne, più degli uomini, vivono e si vivono in relazione agli altri, facendo posto ad altro: non per altruismo o per buona volontà, ma per fedeltà alla  struttura della esistenza umana, il cui primum è la relazione. Senza riconoscimento e accettazione consapevole della difettosità umana, della sua costitutiva indigenza, e della necessità di altro, di altri, si esce dall’umano, e si esce dal simbolico, dal pensiero-linguaggio, tratto proprio della nostra specie. Il simbolico infatti vive di vuoti, di scarti, di differenze, e si nutre della ricerca, ricerca senza fine, di fronte alla mancanza. Questo è anche il movimento dell’apprendimento, se non si intende al modo corrente come riempimento continuo di vuoti, ma come consapevolezza, desiderio e capacità di far posto ad altro – e lasciando che questo spazio vuoto non si riempia mai del tutto – per modificarsi nella direzione del  proprio di più. María Zambrano ci ha insegnato che “le donne si nutrono di poco”[11]e che non esiste un unico modo di pensare e di parlare. Apprendere significa accettare questa verità, significa anche saper disfare e disapprendere per aprire la coscienza ad altro, ad altri mondi, ad altri modi di stare in presenza di tutto ciò che è, e di ciò che ancora non è ma potrebbe essere, se c’è un altro, un’altra, che ci parla e ci ascolta.

Non è un caso allora che molti oggi parlino della nostra civiltà come orientata al post-umano, e non solo a causa della tecnologizzazione del vivente e della biologizzazione delle macchine. Anche il fine della  formazione viene inteso così, come ricorrente ricerca post-umana di completezza, rafforzata dal potere delle nuove tecnologie, come possesso pieno se pur transitorio e continuamente da innovare di strumenti e competenze all’altezza dei compiti e ruoli sociali assunti o assumibili, espansione massima di sé e di tutte le proprie potenzialità, garanzia perfino di felicità, si tratti di singoli o di collettività. E’ l’idea della formazione come un conto in banca per l’eternità, un flusso ineluttabile di benefici e accreditamenti, di capitalizzazione di saperi, conoscenze, competenze, dalla primissima età all’ultima della vita,per poter competere nel mondo in un’ottica del tutto individuale. Basta leggere le farneticanti linee programmatiche delle riforme scolastiche di alcuni paesi europei, in primis l’Italia, che, ispirandosi al trinomio internet-inglese-impresa, tra l’altro prevedono la costruzione, già dalla scuola infantile, del portfolio formativo personale destinato ad accompagnare il cittadino per tutta la vita, “sorta di catalogo dei propri prodotti per dimostrare l’abilità in un determinato settore” (parole ministeriali!). La formazione così pensata, “armoniosamente” integrata in diverse e ricorrenti opportunità educative, è quella di una creatura post-umana, capace di tutto e attrezzata per l’occupabilità, obbligata ad essere felice in un mondo sovrabbondante di possibilità[12], la cui biografia così costruita è pronta ad essere tradotta in curriculum vitae da esibire sul mercato: una creatura – risorsa umana del capitale – che non ha più nulla da cercare, in una mitica, perfetta rotondità dell’essere. Una formazione, questa, che riflette e riproduce “la condizione di servitù volontaria, più che di libertà, dell’homo democraticus occidentale”[13], e sottende la concezione antipolitica di privatizzazione/atomizzazione totale della vita e della convivenza umana piegata all’imperativo della competizione, tipica del nostro tempo, anche quando a promuoverla sono istanze pubbliche e statali.

L’esaltazione delle magnifiche sorti e progressive della società della conoscenza, di quella learning society in cui l’apprendimento è previsto come aspetto strutturale e permanente della vita dei singoli e collettiva – ma le cui finalità non dichiarate sono quelle di favorire l’economia e il mercato del lavoro per lo sviluppo del capitale, per la libertà di competere – sembra azzerare la storia dell’educazione permanente così come l’abbiamo conosciuta in altri tempi, in Europa e in altre regioni del mondo. Una storia fatta di lotte popolari, di resistenze, di creatività, di liberazione delle coscienze, di vero empowerment dei e tra i soggetti, di educazione nella sua dimensione politica e dunque trasformativa. In questa storia ha avuto un ruolo importante e originale la formazione tra donne (tra le iniziative più note, ricordo, per l’Italia, la grande esperienza delle 150 ore iniziata alla metà degli anni ‘70), per la sua capacità di produrre, grazie a relazioni forti e significative tra donne, presa di coscienza e libertà nelle singole, possibilità di riscrivere la propria vita con parole fedeli alla propria esperienza e condivise-contrattate con altre, e di creare culture femminili originali, mosse dall’amore di sé e dall’amore per il mondo, anche attraverso la critica e il disapprendimento di quelle patriarcali.

Questa storia dell’educazione permanente non può essere azzerata, anzi ritengo che il suo spirito originale, la sua anima dell’inizio, possa essere oggi risvegliata proprio da donne, come tenterò di spiegare più avanti: tuttavia con un significativo scostamento sia rispetto al paradigma marxista della libertà come liberazione, che molta parte di quella storia ha ispirato, sia rispetto alla concezione democratica-liberale dei diritti, perché la differenza femminile opera un taglio rispetto a questi ordini sociosimbolici, non si limita a scegliere tra le alternative già date, ma, muovendosi su un altro piano rispetto alla logica dei rapporti di forza, apre verticalmente un orizzonte più grande di pensiero e di azione.

Se si esce dallo schema fuorviante della discriminazione/marginalità femminile, è possibile vedere ciò che già esiste: non solo il grande incremento di presenza di donne sia nel lavoro dipendente sia, ancor più, nel lavoro autonomo, quello delle professioni e quello delle piccole imprese, ma anche i cambiamenti che questa presenza sta portando nel lavoro e nella vita associata attraverso i comportamenti femminili. Anche la sofferenza sul lavoro acquista un nuovo senso. Non è più, o non solo, legata alla fatica, allo sfruttamento, alla disparità di trattamento e di retribuzione: ma piuttosto al senso del lavoro, al modo di lavorare e al modo di concettualizzare il lavoro, dunque alla sua cultura, intesa sia come codificazione scientifica esplicita sia come simbolico implicito materializzato nella prassi. Una cultura del lavoro che riflette la sessualità maschile, rimasta tuttavia tanto inconsapevole di sé quanto poco disposta ad autointerrogarsi, anche quando le culture organizzative vengono riconosciute, al di là delle loro le parvenze scientifiche, come costruzioni ideologiche, e dunque  fatte oggetto di critica, messe alla prova dei fatti (il fatto più eclatante essendo la percezione diffusa della dissociazione tra il lavoro e la promessa di felicità/di sicurezza condivisa, di cui esso sarebbe portatore secondo il capitalismo flessibile). Gli uomini preferiscono oggettivare tali culture organizzative, astraendole dai soggetti in carne ed ossa che le progettano, producono e  praticano, per lo più appunto soggetti del loro sesso, che tuttavia non partono dalla loro soggettività, non partono da sé per dire il senso di ciò che avviene o per ipotizzare possibili cambiamenti. E soprattutto non sanno vedere nella crescente presenza femminile nel lavoro e nelle organizzazioni, da loro assimilata agli schemi interpretativi maschili, una differenza nel modo di rapportarsi a tali contesti, nell’entrare e agire in essi e nell’investirli di senso: una differenza che può modificare in profondità la concezione dominante del lavoro inteso come risorsa delle imprese e del mercato, e, se ascoltata, può significare che, al contrario, sono le imprese e il mercato risorsa di donne e uomini e delle loro vite.

Lo psichiatra del lavoro Cristophe Dejours[14] ha ben evidenziato i veri moventi soggettivi, più maschili che femminili, che consentono al sistema produttivo neoliberista di continuare ad alimentare l’ingiustizia. La negazione autodifensiva della sofferenza inflitta agli altri nel e a causa del lavoro, una negazione che spinge all’ indifferenza, porterebbe gli uomini a non vedere i nessi tra precarietà/rischio di esclusione e ingiustizia sociale provocata dal postfordismo, e ad ascrivere invece il primo binomio a una sorta di destino-sfortuna impersonale. Facendo bene il proprio lavoro secondo la logica della nuova macchina economica, aumentando il proprio zelo per tacitare la paura della precarizzazione, gli uomini(maschi) farebbero in realtà il lavoro del male. Si rendono complici del male compiuto ai danni dei molti e impediscono la presa di coscienza personale e politica di quella normopatia (funzionamento psicosociale “normale” basato sulla negazione delle emozioni) che consente la conservazione del sistema neoliberista, con la sua brutalità dei rapporti di lavoro e di vita, poiché ostacolano l’emergere del sentimento di indignazione che potrebbe alimentare la mobilitazione individuale e collettiva. Ciò che viene messo tra parentesi, non solo, ovviamente, dall’impresa stessa nelle sue analisi organizzative, manageriali e delle risorse umane, ma ad opera degli stessi lavoratori (e purtroppo anche delle organizzazioni sindacali e di sinistra) è la soggettività, la qualità soggettiva del rapporto con il lavoro, i vissuti e  gli stati affettivi propri e altrui – in questo caso di sofferenza – intesi non solo come contenuti di pensiero ma anche come sentire corporeo. Tale omissione ha dato il via libera ai sostenitori di concetti quali “risorse umane” e “cultura d’impresa”, e ha lasciato aperto il campo alle nuove utopie sociali portate dal nuovo spirito del capitale, divenuto paladino della felicità e della piena realizzazione del lavoratore-risorsa umana, una volta resolo disponibile ad adattarsi flessibilmente al conseguimento del proprio successo coincidente con quello dell’organizzazione, anche attraverso la formazione continua. E adattarsi flessibilmente significa non più semplicemente obbedire, accettare la disciplina, ma al contrario mobilitare la propria intelligenza e creatività per superare con zelo gli ostacoli e gli imprevisti, inventarsi infrazioni e astuzie rispetto alle regole e alle prescrizioni organizzative esplicite (delle imprese, delle amministrazioni ecc.), per far camminare realmente il processo produttivo. E soprattutto negare le proprie  paure (di fallimento, di esclusione…) e la sofferenza propria e altrui. Una forma, questa, di cinismo, contrabbandata come coraggio virile. Dejours sottolinea infatti il nesso, ancora una volta di potere, tra il funzionamento postfordista del lavoro e della socetà e l’ideale virile del coraggio, quella capacità “virtuosa” di andare in guerra, affrontare la morte e darla agli altri che è iscritta nell’apprendistato maschile alla vita. Riconoscendo come nelle donne e nel loro apprendistato non si trovi tale configurazione, l’autore propone come possibile cambiamento politico una modificazione simbolica, ossia l’elaborazione di una cultura del lavoro e della convivenza sociale fondata sul coraggio liberato dalla virilità, a partire dalle forme specifiche del coraggio femminile, che al contrario accettano la percezione della sofferenza e consistono nel rifiutarsi di infliggerla ad altri.

 

  1. Economia del desiderio e Politica del simbolico

Il volto del lavoro e quello della formazione hanno già cominciato a modificarsi dalla presenza delle donne, e oggi il compito politico è proprio quello di sottrarre la  cosiddetta femminilizzazione del lavoro e della formazione ai significati del capitale, per restituirli alla loro origine, la libertà femminile.

Non si tratta né di rifiutare, negandola illusoriamente, la forza della riorganizzazione neoliberista del capitale, né di opporvisi frontalmente, ma di giocare sul suo stesso terreno la partita della libertà umana e delle forme di civiltà, portando le sue istanze a una radicalità da esso non prevista e perciò destrutturante. Parlo proprio del terreno di quello che è stato definito nuovo spirito del capitalismo, prendendo sul serio la parola “spirito”.

Sappiamo che esiste un nesso storico molto forte tra affermazione del capitalismo e passioni, desideri, impulso alla libertà degli esseri umani, e che lo spirito del capitalismo si nutre di questi fattori extraeconomici. Oggi è sul piano del desiderio che le potenze competono nel mondo, sulla capacità di suscitarlo prima ancora che di soddisfarlo: desiderio di consumo ed economia consumistica del desiderio  si possono slegare dal possesso reale di beni e si nutrono prevalentemente di fantasie di soddisfazione, diventando immaginifici e immateriali quanto le nuove merci. Il nuovo spirito del capitalismo sta facendo politica del simbolico (e non solo con il marketing), nutrendosi anche, come ho già ricordato, delle istanze, delle pratiche, dei linguaggi di chi lo contestava negli anni ’60; e con la globalizzazione si propone come visione del mondo a tutto campo, stile di vita oltre che di lavoro, perfino come “rinnovamento spirituale”[15].

La nuova cultura d’impresa se ne assume il compito, contaminando i saperi tecnici e strumentali con frammenti di culture espressive nate altrove, minoritarie o addirittura alternative: e fa leva sul desiderio di libertà, di autonomia, di avventura, di iniziativa personale, sulle passioni dei lavoratori, non senza spingerli cinicamente sull’abisso della flessibilità coincidente con la precarietà. Con un’ambiguità che va sempre tenuta presente, questa cultura tiene insieme, in tensione, necessità organizzative per il profitto da un lato, con il desiderio umano di intrapresa, con il bisogno dell’anima di comunicare, di vivere relazioni di fiducia e rapporti non gerarchici, dall’altro. Inventa perciò la produzione per progetti (team, gruppi di lavoro), il lavoro di rete, alleanze mobili e informali favorite dall’uso anche spregiudicato e creativo delle nuove tecnologie. E si propone come migliore interprete di quella tensione al nuovo, al cambiamento, all’apprendimento continuo, al nomadismo professionale ed esistenziale, alla sottrazione di anime e corpi ad un destino a senso unico, diffusa nel nostro tempo soprattutto tra le persone giovani. Dovendo far leva  sulla mobilitazione degli affetti oltre che delle intelligenze, l’azienda (forma ormai paradigmatica di tutte le organizzazioni) ha tra le sue mission la “manutenzione” continua, fisica, spirituale, estetica, dell’intera personalità del lavoratore, divenuta, nelle nuove forme produttive, materia prima e risorsa centrale. Per questo l’azienda tende a diventare luogo di vita totalizzante e user friendly, facendo proprio, a modo suo, quel superamento della distinzione privato/pubblico, lavoro/vita che è stato un guadagno del femminismo. Non solo il tempo di lavoro si dilata flessibilmente fino ad estendersi senza limiti, ma l’azienda tende a incorporare funzioni ricreative, rigenerative, di loisir,  di cura, di orientamento, allenamento, guida, dei manager e dei quadri, attraverso le figure del counsellor, del coach, del mentor, ecc., accanto alle formazione più tecnica-specialistica, quasi sempre ormai gestita direttamente dai manager o delegata anch’essa in outsourcing ai confezionatori di pacchetti formativi. Perfino la presa in carico della cura e del tempo di vita dei figli dei lavoratori viene prevista, nei centri infantili aziendali e interaziendali, che ormai sostituiscono un po’ ovunque i servizi pubblici. La stessa biografia dei lavoratori, per la sua pregnante compresenza di saperi e competenze esplicite e implicite, per la sua natura di storia formativa in fieri, si rivela materia da plasmare e risorsa da utilizzare per la competività dell’azienda. E la parola d’ordine è: imparare divertendosi. Con la clownerie, con il teatro, per la sua potenza di sperimentazione identitaria, ma anche con altre arti, compresa poesia e letteratura, che diventano mediazioni formative in azienda. E le narrazioni autobiografiche, pratica femminile diffusa e divenuta pratica politica nei gruppi femministi di autocoscienza, entrano, spuntate della loro radicalità/radice, nella formazione aziendale come momento quasi intimistico di rivisitazione  di sé e della propria storia. Ad esse fanno da contraltare le pratiche formative fuori aula, all’aperto, l’outdoor training, tese a rafforzare negli individui componenti i gruppi di lavoro la capacità di competere, e di cooperare per la competizione, attraverso esperienze fisiche anche estreme, quasi iniziatiche, che coniugano coraggio fisico con coinvolgimento emotivo e senso dell’avventura, dell’esplorazione, il tutto finalizzato a rafforzare lo spirito di squadra e il senso di appartenenza all’azienda.

Sulla concezione ideale (e idealizzata) di formazione messa a punto, se pur timidamente, dai noti documenti europei degli anni novanta, che prevedeva l’acquisizione di una larga  cultura di base per tutti su cui innestare l’apprendimento continuo e critico di competenze specifiche-professionali, ma anche gli apprendimenti continui che servono a una vita consapevolmente vissuta, prevale un modello formativo pragmatico-funzionale. Un learning by doing, un apprendimento problem solving in tempo reale, tutto orientato ai must aziendali, pur se ammantato di attenzione educativa, cura spirituale, e di un’estetica del vivere per la messa in forma dell’uomo vincente. Un modello formativo esonerato da qualsiasi istanza critica, riflessiva, lontano dall’autentica autoformazione e perfino dall’autentico apprendimento organizzativo, che per essere tale non può ignorare la necessità di tempi distesi di confronto, scambio, elaborazione riflessiva dell’esperienza, comprensione di alto profilo – e condivisa tra tutti – delle dinamiche e dei processi certo non lineari generati nelle organizzazioni.

Si apre allora una grande domanda: se questo è il senso prevalente delle azione formative oggi, come aprire ad altri sensi la formazione lungo tutto l’arco della vita? “Ai nostri giorni quali lotte, quali proposte, quali alternative?”[16]

Alcune risposte ci possono venire proprio dall’esperienza femminile e dalla politica delle donne, che a partire da sé portano alle conseguenze ultime le istanze ideali del nuovo spirito del capitalismo cognitivo, costringendolo forse a fare i conti con le proprie ambiguità e contraddizioni, i cui effetti sono già visibili nella crisi mondiale degli ultimi anni.

Prendendo sul serio l’imperativo del modo postfordista di produzione di portarsi tutti interi al mercato come forza-lavoro, competenze cognitive, emotive, relazionali-comunicative, anima e corpo, sapere e piacere, desiderio e amore, le donne hanno portato al mercato del lavoro la propria soggettività, e dunque uno stile, dei comportamenti, un senso del lavoro che il modo tradizionalmente maschile non prevedeva.

Donne di generazioni diverse oggi sono presenti nei processi produttivi, mantenendo tra loro, a differenza degli uomini, il senso della costruzione genealogica delle esistenze femminili, della loro libertà conquistata nella relazione tra donne. E molte delle le trenta-quarantenni, quelle della web generation, partono fortemente avvantaggiate rispetto ai coetanei maschi non solo per i risultati scolastici e formativi migliori, ma per un senso di sé rafforzato dalla generazioni precedenti di donne e per una capacità riflessiva e relazionale di prendere misura e di potenziare il proprio desiderio riferendosi ad altre, che consente loro di avere  consapevolezza della loro bravura, senza che tuttavia questa rappresenti un laccio al loro libero agire. E’ raro infatti che esse si facciano condizionare dal bisogno tipicamente maschile di ricercare ed esibire continuamente la bravura facendone il perno della loro identità, o che subordinino i loro desideri al principio sociale della prestazione: e questo le rende più disposte ad imparare sì tecniche e strumenti, ma soprattutto ad apprendere riflessivamente dall’esperienza propria e altrui per una comprensione più larga di sé e della vita, a continuare ad apprendere.  Le giovani donne hanno saputo, anche se in forme diverse, risvegliare un modo femminile di stare al mondo che le porta a cercare libertà nel lavoro, non dal lavoro, a tessere insieme lavoro e vita, non secondo la flessibilità alienante postfordista, ma creando un’unica trama che dia senso e agio, senza troppo sacrificio di ciò che  ritengono essenziale (amori, figli, interessi sociali e culturali…) e facendo del lavoro un’esperienza viva, fonte di un apprendimento continuo dal valore intrinseco e non mercificabile.

Le donne non soffrono prevalentemente per non accedere ai gradi alti delle carriere, o per l’entità della retribuzione, perché non sono interessate a conquistare posizioni di prestigio cancellando la loro differenza, e inoltre, pur riconoscendo il valore del denaro, non lo mettono al primo posto. Al primo posto mettono invece, e soffrono quando manca, la qualità del lavoro: la possibilità di lavorare bene, con una valorizzazione e un ritorno di senso del loro agire, senza dover infliggere sofferenza a sé e agli altri in una logica di potere, la possibilità di trovare nei contesti lavorativi ricchezza di relazioni non strumentali ma “per il gusto della relazione”[17], relazioni dunque sensibili ai desideri soggettivi e capaci di potenziare intelligenza e cuore dall’imprevedibile abbondanza che deriva dagli scambi umani basati su fiducia e autorità. E sul lavoro le donne, più degli uomini, tendono a sintonizzarsi su desideri e emozioni proprie e altrui, a connettere più che a separare, e tendono ad investire il proprio lavoro di aspettative di apprendimento, di benessere, di crescita umana e culturale per sé e per le altre/altri, compresi i destinatari del loro lavoro (clienti, pazienti, utenti ecc.): a questo corrisponde il desiderio femminile di un lavoro ben fatto, sia come processo che come prodotto. Dunque del lavoro cercano e attivano più degli uomini il lato formativo, la sua formatività  nel senso umano e non unicamente strumentale.

Questo differente modo di vivere l’esperienza lavorativa – la ricerca maggiore di autonomia e di agio per sé e per gli altri, la prevalenza della competenza sulla competizione, il primato del piacere di fare e pensare in relazione, sul denaro e la carriera, l’apprezzamento della formatività del lavoro stesso, il viverlo come vita e non come tempo di non vita – mentre spiega la crescente presenza femminile nell’area del lavoro auto-organizzato, rappresenta un di più di senso, un valore aggiunto del lavoro che le donne portano nel mondo accompagnato oggi, per opera di alcune[18] dalla conquistata consapevolezza della sua impagabilità, della sua impossibilità di riduzione a merce. Segnando così uno scarto rispetto all’ordine dato, la differenza femminile libera, mentre mette in discussione la pretesa del denaro di fungere da equivalente universale, si fa significante della irriducibilità dell’umano al capitalismo onnivoro, della impossibilità della  mercificazione di corpi-anime di donne e di uomini e dei loro rapporti. Al tempo stesso essa si fa segno di una concezione della libertà non astratta, formale, o continuamente dilazionata a un futuro messianico, e neppure affidata alla conquista di diritti, di beni o posizioni sociali nell’onnipervasivo mercato della produzione/consumo. Piuttosto libertà singolare e insieme relazionale: esperienza concretamente possibile, qui e ora, al presente, di un agire e un pensare della singola/o esposti sì al rischio e all’imprevisto, ma ancorati alla forza del desiderio personale e sostenuti da relazioni vincolanti, relazioni di autorità riconosciuta ad altre/altri concreti che spiazzano le relazioni di potere. Nel gioco di contrattazione tra autonomia e dipendenza tra sé e sé, tra sé e altro da sé, la libertà femminile così praticata si discosta totalmente dalla concezione maschile moderna e ipermoderna di autonomia sciolta da vincoli, e si fa invece apertura di un altro ordine di rapporti, in forza dell’accettazione consapevole delle dipendenze e del bisogno degli altri che abbiamo, e delle relazioni che riconosciamo vincolanti per dar senso al nostro agire, per renderci più intelligenti ed efficaci.

Anche nella formazione le donne tendono a discostarsi dalla concezione mercantile e aziendalistica corrente, non si subordinano, o lo fanno poco, al mercato della formazione. E gli apprendimenti tecnico-specialistici, pur da loro apprezzati, sono secondi in ordine di importanza rispetto all’imparare dalla e per la vita, ad imparare ad essere con maggior creatività e autonomia, ad aprire l’esistenza a una trascendenza di senso. Le donne a volte dilazionano il conseguimento del titolo di studio al piacere di stare in relazione con altre, altri, nei contesti formativi, perché per loro le relazioni significative sono fonte di sapere, di saggezza, di libertà, e insegnano, più che i corsi formali con la loro curvatura utilitaristica, a sintonizzarsi con la vita con i suoi lati di ombra e di luce, e perciò hanno la precedenza, così come ci ha insegnato nostra madre. Per questo motivo sia nel lavoro che nella formazione le donne, più degli uomini, stanno in un modo amoroso, creativo, libero[19]: in un’economia del desiderio. Sono più pronte a mettersi in gioco, a vivere gli ostacoli come occasione per riaprire desideri e competenze,  sono più disposte a riflettere a partire da sé, dalla propria storia e dalle narrazioni delle altre, a sperimentare nuove soluzioni più vicine alla vita e più umanizzanti, perché nel loro agire e apprendere non dimenticano la continuità della vita, né il bisogno che la vita sia continuamente rinnovata da un nuovo inizio, come ci hanno detto due grandi filosofe, Hannah Arendt e María Zambrano.

Ma lo stesso significato di mercato ne risulta mutato, così come quello di impresa.

Abituati come siamo, in molti, a provare diffidenza se non ostilità di fronte a queste parole, può sembrare strana la rivalutazione che le donne ne stanno facendo a partire dalla loro esperienza e dalla loro politica, pur prendendo anch’esse le distanze dai modi correnti di fare mercato e impresa.

Che sia possibile un’economia del desiderio non capitalistica, entro la quale mercato e impresa assumono altri sensi, sensi liberi, lo sta dimostrando la crescita delle imprese sociali, in cui le donne sono presenti più degli uomini, e molte imprese economiche a governo femminile. In esse il denaro non sta al primo posto, ma diventa mediazione, oltre che per le proprie necessità materiali di vita, per fare legame sociale, vita associata, e per rispondere con la produzione di beni-servizi a esigenze vive, non indotte o fittizie, della nostra società. Come affermano donne che da anni lavorano alla creazione di imprese sociali anche attraverso la formazione (che diventa anch’essa impresa-creazione sociale, per una formazione che è anche pratica politica, non pezzo del mercato formativo), si può “stare nel mercato senza essere del mercato” [20].

Stare nel mercato, per necessità di lavorare, ma senza farsi misurare totalmente dal denaro, piuttosto con una misura che viene da libere relazioni umane e dai desideri messi in gioco. Ciò rende possibile un’altra forma di profitto: un guadagno di realizzazione umana e di senso, da far circolare nel mondo, un guadagno di relazioni di fiducia e di socialità che consente la moltiplicazione dei desideri, delle energie inventive, delle competenze e delle potenzialità, il loro non consumo in un gioco a somma zero: in altre parole, un guadagno politico e soggettivo di libertà che diventa a sua volta un credito sociale. Crearsi un lavoro associandosi ad altre/altri, e fare di questo lavoro un’impresa che risponda a bisogni sociali non soddisfatti dal sistema capitalistico in un dato territorio (e sono molti), pur non perdendo di vista i nessi a livello più ampio, globale, incontra una necessità di maggior civiltà del nostro tempo. Come scriveva Gelpi, cogliendo al meglio una tendenza in atto: “Un lavoro concreto, che risponde a bisogni sociali insoddisfatti legati a dimensioni territoriali precise, apparirà necessario”[21].

E il carattere sociale dell’impresa non si esaurisce nella sua forma giuridica (cooperative, associazioni), o nel suo campo d’azione (il sociale, l’ambito della cura delle persone, dell’ambiente ecc., anzichè la produzione di merci for profit), o nel reinvestimento degli utili nell’impresa stessa o in nuove imprese. Si giustifica per la sua valenza di socializzazione della ricchezza relazionale e simbolica via via prodotta[22]: intelligenza condivisa delle cose, capacità di inventare nuove realtà e mediazioni necessarie connettendo risorse, potenzialità, soggetti prima separati, rilancio dei desideri, competenza a nominare con un linguaggio adeguato, più vicino alla lingua materna che ai codici tecnico-specialistici, ciò che accade, compresi gli ostacoli oggettivi e soggettivi e i conflitti. Ne deriva un circolo virtuoso tra esperienze/pratiche maturate, capacità di trarne saperi e cultura condivisa, rilancio delle motivazioni soggettive per creare nuovi contesti: e il circolo non si chiude sulle dirette interessate, le creatrici o socie/i dell’impresa, ma si allarga al territorio, in primo luogo ai destinatari dei servizi, fino a formare una ricca tessitura di rapporti e una sorta di scrittura collettiva di nuovi contesti-testi sociali[23]. Un apprendimento allargato e continuo, per i singoli, i gruppi, le comunità locali, che si nutre di processi sociali viventi e li nutre mentre essi si dispiegano, anche con il carico di imprevedibilità che l’autoattivazione dei soggetti e la contrattazione continua tra soggetti comporta.

Queste donne, facendosi soggetti economici – e non certo secondo l’ideale sociale e formativo diffuso del farsi imprenditore di se stesso, figura (maschile) solitaria attrezzata per le sfide e circondata da relazioni strumentali –  sanno aprire il mercato e l’impresa a significati più grandi. E, portandovi quello che sono ( più che quello che hanno, che spesso è poco), l’amore per creazioni condivise e sensate che si possono allargare senza fine, la libera e misurata combinazione di bisogni e desideri, la cura delle parole e la politicità elementare  delle relazioni umane non strumentali, insegnano come si può guadagnare tanto avendo poco. Un sapere, questo, essenziale per la vita (e per il nostro tempo): un’economia e un’epistemologia generative – perché fanno tesoro delle relazioni, delle connessioni, delle differenze, potenzialmente infinite – “che consentono di fare molto con poco”[24], come ci hanno indicato Gregory e Catherine Bateson, e che hanno una forte valenza politica.

Nelle iniziative[25] che le libertà femminile sta diffondendo nel mondo vicino e lontano, e in cui l’economico, il sociale, il culturale, il formativo, l’esistenziale si mescolano, pur rimanendo riconoscibili come diversi piani d’essere in cui si è dispiegata l’ispirazione originaria, il mercato non è vissuto unicamente come ambito dominato dal capitale e dalle sue leggi, e l’impresa non si riduce ad essere la sua protagonista (o ancella, a seconda dei punti di vista). Ma il mercato è anzitutto, com’era del resto all’origine[26], luogo di incontro e di scambio in senso ampio, non solo monetario: scambio materiale e simbolico di corpi e di anime di soggetti concreti, donne (e uomini), di storie, di relazioni, di desideri, di competenze, di idee, di saperi, di riflessioni, di creazioni, di doni. Scambio simbolico in cui i sensi dell’impresa si allargano fino a significare intrapresa esistenziale, culturale e politica, e in cui la lingua appresa dalla madre, mai dimenticata e non mercificabile, ha di nuovo la forza di significare nella sua singolarità la ricchezza messa al mondo e quella ancora possibile, confinando i linguaggi onnipotenti e livellanti del denaro, della scienza e del potere, nel posto secondo che a loro compete.

 

[1]              Cfr. A. Buttarelli-L. Muraro- L.Rampello, Duemilaeuna. Donne che cambiano l’Italia, Nuove Pratiche- Il Saggiatore, Milano 2000, p.12

[2]              Riprendo dal titolo di un mio articolo, L’incerto crinale. Formazione e lavoro nell’esperienza femminile e nel lifelong learning, “Studium Educationis”, 2, 2003, di cui il presente saggio si pone come continuazione.

[3]              Questa espressione coincide con  il nome di un gruppo di riflessione attivato da María-Milagros Rivera Garretas, che ha pubblicato il testo De dos en dos. Las prácticas de creación y recreación de la vida y de la convivencia humana, horas y HORAS, Madrid 2000.

[4]              Cfr. Alessio Surian (cur.), Un’altra educazione in costruzione. Secondo Forum Mondiale dell’educazione di Porto Alegre, ETS, Pisa 2003. Nel testo si evidenziano più volte le recenti tappe dei processi di internazionalizzazione  che stanno investendo in modo ambiguo i sistemi di istruzione e di formazione a livello mondiale, ad esempio la Conferenza di Washington del maggio 2002 sulla liberalizzazione del servizi educativi, oltre al Memorandum on Lifelong Learning della Commissione delle Comunità Europee del 2000. La curvatura neoliberista delle politiche europee sulla formazione è presente anche nel documento conosciuto come Carta di Lisbona (2000), finalizzato ad armonizzare i sistemi educativi dei principali paesi europei, in realtà ad affermare l’egemonia della cultura aziendale e della competizione economica sui processi formativi e sulla crescita delle nuove generazioni.

[5]              Julio Rosero Anaya, L’impostazione ideologica della “legge di qualità” e costruzione della scuola pubblica in Spagna, in Alessio Surian (cur.), op. cit., p.143.

[6]              María Zambrano, L’art de les mediacions, (1965), Publicacions de la Universitat de Barcelona, 2002, p117.

[7]              Luc Boltanski-Eve Chiapello, Le nouvelle esprit du capitalisme, Gallimard, Paris 1999.

[8]              [8] Una minoranza tuttavia in crescita. E’ un fenomeno che merita attenzione: lo riscontro a partire dalla mia esperienza di docente in una Facoltà di Scienze della Formazione, ma anche dai racconti di molte amiche attive in altri luoghi, per me fonte preziosa di conoscenza. Aumenta il numero di giovani uomini che scelgono non per ripiego, ma per interesse autentico, studi e attività lavorative nell’ambito umanistico-sociale, compreso l’ambito della cura in senso lato. Vi intravedo l’efficacia dell’agire femminile libero e dell’autorità di donne (forse le loro stesse  madri, insegnanti, amiche, fidanzate…) nel tessuto culturale e sociale degli ultimi decenni. Anche lo spostamento di parte delle giovani generazioni maschili dall’ideale yuppistico degli anni ’80 a scelte di vita e di lavoro (economia solidale, impresa sociale, ecologia, lavori e professioni sociali, ecc.) apprezzate per la qualità delle relazioni e delle esperienze umane, e per la loro componente politica, più che per il prestigio sociale ed economico, indica il loro riferirsi a  misure  femminili dello stare al mondo, anche se il riferimento non è sempre esplicito e consapevole.

[9]              Libreria delle donne di Milano, E’ accaduto non per caso. La fine del patriarcato, “Sottosopra”, 1996

[10]            Robert Putnam, Bowling alone, Simon & Schuster, New York, 2004, p. 43

[11]            María Zambrano, Delirio e destino, tr. it., Raffaello Cortina, Milano 2000, p.33.

[12]            In un’ottica di globalizzazione è facile far passare l’idea di questa abbondanza: basta  essere pronti ed educati a spostarsi di qua e di là.  Sugli aspetti de-formativi di questa ideale di autoderminazione della propria vita, e sugli effetti di disorientamento e di sofferenza che l’eccesso di possibilità di scelta a tutti i livelli dell’esistenza (dallo studio, al lavoro, alla casa, ai viaggi, al consumo etc., perfino nel reinventarsi un’identità) provoca nella vita dei singoli, molto si è già detto, sottolinenando come si tratti di una  libertà illusoria, fonte di autocolpevolizzazione e di infelicità per i soggetti, costretti a confrontarsi, nelle loro scelte inevitabilmente imperfette,  con un modello di perfezione fasullo. Cfr. Barry Schwarz, The Paradox of Choise:Whay More is Less, Ecco Press, 2003: lo studioso americano sottolinea come “i fattori che contribuiscono di più alla felicità sono proprio quelli che, sottraendoci alla tirannia della scelta, ci legano agli altri”.

Su una una linea interpretativa simile si muove anche il testo di due psichiatri, Miguel Benasayag e Gérard Schmit, L’epoca delle passioni tristi, tr. it., Feltrinelli, Milano 2004.         

[13]            Ida Dominijanni, La apuesta de la libertad  femenina, “Duoda”, 26, 2004, p.95.

[14]            Cristophe Dejours, Souffrance en France, Editions du Seuil, Paris 1998 (tr. it. L’ingranaggio siamo noi. La sofferenza economica nella vita di ogni giorno, Il Saggiatore, Milano 2000)

[15]            Cfr.  Antonia De Vita, Imprese d’amore e di denaro, Guerini  e Ass., Milano 2004.

[16]            Ettore Gelpi,. Lavoro futuro, Guerini e Ass., Milano 2002, p. 43 (ed.or. Futurs du travail, L’Harmattan, Paris 2001).

[17]            María-Milagros Rivera Garretas, Trabajar por el gusto de estar en relación?, “Duoda”, 25, 2003.

[18]            Donne che concepiscono la politica come politica del simbolico, le trasformazioni del mondo come trasformazioni del senso di ciò che ci accade, hanno cominciato una riflessione sul lavoro a partire dalla libertà femminile: si veda, oltre al già citato numero di  “Duoda”, anche  A. Buttarelli, G.Longobardi, L.Muraro, W. Tommasi, I. Vantaggiato, La rivoluzione inattesa. Donne al mercato del lavoro, Pratiche, Milano 1997.

[19]            V. Ana Mañeru Méndez, La educación a lo largo de la vida: una práctica femenina, “Notas. Educación de Personas Adultas”, 15, 2003, pp.28-31.

[20]            Mi riferisco in particolare alla Mag. Società mutua per l’autogestione di Verona, a governo femminile: v. Alessandra De Perini, Rossella de Vecchi (cur.), L’oro dell’impresa sociale, Edizioni Mag, Verona 2004, p.8.

[21]            Ettore Gelpi, op. cit. p. 44.

[22]            Questa precisazione, introducendo una misura di giudizio sulle iniziative dell’economia sociale, dovrebbe mettere le creazioni-imprese sociali, cui mi riferisco, al riparo dalle critiche che giustamente alcuni autori avanzano (v. Ettore Gelpi, op. cit., e Bruno Schettini nella Presentazione alla stessa opera, pp. 26-27) circa la positività tout-court dell’autoattivazione economica della società civile o di parti di essa. E’ vero infatti che, come i due autori sostengono, parte delle imprese sociali e cooperativistiche rischiano o la assoluta marginalità o la rapida deriva verso modelli organizzativi e gestionali tipici del for-profit, oppure la loro strumentalizzazione da parte del grande capitale. Questo tuttavia accade più raramente, o non accade affatto, lì dove le forme autorganizzate di lavoro sono sostenute da donne  consapevoli della loro differenza, che sanno mettere al centro dell’attività lavorativa la relazione e la sua lingua, non appiattendola alla sua completa traducibilità con il denaro, e fanno dell’impresa economica un’impresa esistenziale e politica, accompagnando il fare con la riflessione continua e condivisa e con la capacità di modificare l’esistente. Allora il servizio prestato o il bene prodotto dall’impresa sociale viene continuamente messo in relazione al bisogno cui esso risponde: prende misura da esso e ad esso dà misura, evitando di cadere nella logica del capitale con un’iperpresenza dell’offerta di servizi o di beni che esonera le persone dalla necessità di relazionarsi direttamente agli altri e di diventare protagonisti dei propri bisogni e della propria esistenza, di diventare cioè soggetti sociali e politici.

[23]            Cfr. Antonia De Vita, op. cit.

[24]            Gregory Bateson, Mary Catherine Bateson, Dove gli angeli esitano, (tr. it.), Adelphi, Milano 1989, p 300.

[25]            Molti sono ormai gli esempi, alcuni presentati e discussi in questi anni nel periodico di Azione Mag e dell’Economia sociale, dal titolo “Autogestione e politica prima”, edito a Verona, oltre che nel testo già citato L’oro dell’impresa sociale.

In Spagna si è ispirata alla politica e al pensiero della differenza Entredós, un’impresa autogestita  nata alcuni anni fa a Madrid dalla relazione e dal desiderio di alcune, per far incontrare liberamente donne e creare un luogo di socialità, di politica e di libertà femminile aperto alla città (e al mondo): v. Textos Entredós, Fundación Entredós, Madrid 2003.

[26]            Giorgio Taborelli, Amilcare Pizzi (cur.), Lo specchio della merce, Pizzi ed., Milano 1992.