diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 8 - 2009

Ho Letto

Anna Moï la voce dell’altra a più lingue. Espéranto désespéranto. La francophonie sans les français

Innanzitutto alcune considerazioni  sulla lettrice che mi scopro essere attraverso una lunga esperienza di letture alla prova delle mie « passioni lettrici » passioni di lettrice. Una componente molto forte di questa passione è un orecchio che persegue ostinatamente gli accenti delle lingue straniere, anche quando queste parlano in traduzione. L’identificazione alla straniera  non si traduce per quanto mi riguarda in un allontanamento dal mondo, dall’umano e dagli umani ma piuttosto nel riconoscere mano a mano implicazioni coinvolgimenti  e prese di distanza. Leïla Sebbar diceva recentemente  che è la parte straniera in lei che, inassimilabile, la fa scrivere,  aggiungerei è la straniera che pensa e scrive in me. Non la straniera a qualcosa o a qualcuno ma  « straniera » : Woolf direbbe, e condivido, l’outsider, non in quanto esclusa e definitivamente marginale (l’esiliata) ma in quanto capace di passaggi e articolazioni, movimenti e relazioni di pensiero e di anima. La mia « estraneità » è l’altro lato dell’ospitalità all’altrui, alle altre comuni estraneità.

 

Questa lettrice che ha bisogno di spostarsi e di essere spostata, decentrata, estraniata, da  scrittrici e scrittori che ci parlano dai loro luoghi natali di scrittura in altre lingue, spesso del tutte sconosciute al nostro « comune » ma sempre più ibrido, occidente.

Vorrei per questo cominciare da un curioso libricino di una scrittrice che scrive in francese, ma la cui lingua madre è il vietnamita. In Espéranto désespéranto, La francophonie sans les Français (Paris, Gallimard, 2006) Anna Moï ci spiega le ragioni che l’hanno indotta a scegliere la lingua francese. Ragioni inusuali, perché non direttamente legate alla storia postcoloniale, ma a un percorso tra le lingue, da un paese all’altro. Infatti Anna Moï ogni volta che per motivi diversi si è trovata a vivere in un altro paese ha imparato e adottato la lingua di quel paese, e naturalmente ha mantenuto il rapporto con le lingue di studio : si ritrova quindi a parlare sei lingue[1]. Straordinario, potremmo dire, tuttavia non ci troviamo davanti al caso più frequente della poliglotta perché come Moï osserva giustamente : « questo baule di tesori linguistici non fa di me immediatamente una scrittrice ». Questa osservazione apre a mio avviso una nuova dimensione alla riflessione sul rapporto tra lingua (materna o straniera) e scrittura. La scelta della lingua di scrittura implica delle qualità o disposizioni particolari e chiaramente ci aspettiamo che Anna Moï chiarisca proprio questo punto.

Intanto bisogna dire che Anna Moï è uno pseudonimo, ma nello stesso tempo un « vero » nome che porta i segni di una lingua che nasce dalla confluenza di più lingue e culture : « Adottando lo pseudonimo di Anna Moï, avevo usurpato una nuova identità che mi rese doppiamente libera, quasi eretica: moï significa selvaggio – buono o cattivo secondo i casi. » « Sono consanguinea dei selvaggi e degli stranieri su tutte le terre calpestate e non scambierei la mia condizione con nessun’altra ». Moï è di fatto il nome di una popolazione che abita alcune regioni del Vietnam, le terre rosse, dove Anna si ricorda di aver mangiato miele e patate dolci.  Attribuirsi il loro nome è  un atto di riconoscimento e di riconoscenza. Quanto a Anna l’incrocio è ancora più sorprendente  : « An significa « tranquillità » Nam « sud »  ; an-nam-moï, « tranquillità-sud-selvaggio ; anna selvaggia. Anna  dall’ebreo Hannah, o la grazia. » (Moï, 44). Il nome di « nascita » Thiên- Nga  (cielo=bella donna) significa Cigno celeste, ma questa è un’altra storia. La storia del nome  non restaura né ricostruisce una genealogia o una filiazione (patri o matrilineare o etnica) ma sottolinea l’aspetto creativo legato alla persona stessa, al modo in cui  diviene nel corso della vita: ci possono essere diversi  nomi successivi in periodi diversi, secondo le circostanze della vita. Attraverso tutti gli elementi che la scrittrice precisa riguardo allo statuto del nome nella sua cultura e nella storia del suo paese capiamo che « cambiare nome » o dare uno pseudonimo non hanno affatto lo stesso senso che nella cultura occidentale : un bambino riceve un nome per proteggerlo dalle malattie, e soltanto in seguito esce da questa « maschera » per avere un nome per l’età adulta, e forse ne avrà un altro alla fine della vita che rispecchierà quello che è stato. Questa « infedeltà al nome » spinge la scrittrice a cercare altri suoni, altre consonanze nelle lingue straniere, senza pertanto rimuovere le lingue che la compongono e che si sovrappongono come gli strati della lacca, in quanto secondo Moï l’arte della lacca e quella della lingua sono simili :

« Gli strati della mia lingua invisibile sono multipli. Contiamo : le lingue che conosco, le culture che hanno disegnato il paesaggio della mia vita, gli imprevisti del mio destino. Strati leggeri e altri più pesanti che ho messo anni, a raschiare e a levigare.. […] Gli strati di lacca sovrapposti, trasparenti, sono invisibili una volta terminata l’opera. Sono impercettibili all’occhio, che distingue soltanto la profondità. » (Moï, 49)

Ci si può domandare perché Anna Moï non abbia scritto nella lingua materna: il vietnamita. Grazie alle sue spiegazioni sulla lingua scritta  possiamo capire che talvolta la distanza tra lingua materna parlata e lingua scritta rende estremamente problematica la venuta alla scrittura. Di fatto la storia delle ripetute occupazioni, guerre, divisioni, occultamenti (della letteratura prodotta tra gli anni trenta e settanta) spingono la scrittrice a scegliere una lingua che sebbene connotata dalla storia coloniale, diventa per lei lingua d’arte extraterritoriale :

« Si scrive sempre in una lingua straniera, anche se è la propria lingua materna. Nessun paese offre un territorio ideale in cui lo scrittore traccerebbe la propria geografia e non stupisce che  provi il bisogno, di tanto in tanto, di andare a rinchiudersi tra le pareti neutre di una residenza solitaria extraterritoriale. » (Moï, 33)

In un breve scritto  pubblicato nella raccolta Pour une littérature-monde (2007) Anna Moï si definisce semplicemente « l’autre » e vedremo come. È interessante citare l’incipit del testo: « Non scrivo nella mia lingua materna. Tuttavia, senza mia madre, non sarei diventata scrittrice. » Riconosciamo la raffinatezza delle distinzioni che ci fanno fare un passo avanti nella riflessione sulla relazione tra lingua materna e scrittura. Elucidando in seguito altri eventi della sua biografia scopriamo che se la madre è colei che raccontando fiabe e leggendo libri della letteratura mondiale in francese trasmette alle figlie il gusto della lingua e il desiderio di scrivere in francese, è al padre che la giovane è identificata e è  al padre che il primo libro è dedicato, padre che scrive in vietnamita. Il desiderio della madre la vuole «garçon manqué», i desideri di entrambi la pone nello spazio degli illegittimi e dei ribelli, da qui il vagabondaggio in cerca di libertà e l’emigrazione verso il paese letteratura:

«Là, fui uomo o donna, e perfino vari personaggi nello stesso tempo.  Per giungere nei territori letterari, ho fatto una deviazione attraverso il paese ultraterrestre della mia infanzia e ho adottato quella che al mio orecchio fu la lingua dell’innocenza perpetua: il francese. Pensavo di abbordare una terra d’immigrazione dove sarei stata «in famiglia », parente di tutti quelli che ai quattro angoli del mondo, vagabondavano come me con le valigie delle parole. In questa famiglia, tutti i soliloquisti sarebbero stati i benvenuti, tutti gli apolidi, espatriati, senza patria.

Pubblicai. Mi si diede l’etichetta di scrittore francofono. Ero ancora l’altro/a. » (249)

Espatriata nel paese letteratura Anna Moï non ha del tutto abbandonato o perduto la lingua prima, quella che continua a parlarle all’orecchio, e che, più che attraverso le parole, passa per le emozioni e le lacrime : il canto anche se in lingua straniera si rivela come una lingua intermedia fra lingua materna e straniera, ancora una volta intimamente altra. Ascoltando una cantante russa cantare canzoni del suo paese, le lacrime l’hanno travolta. La scrittrice non conosce né parla il russo ha semplicemente scoperto che la « vera »lingua universale è il canto, e la sua prima lingua è diventata quella della musica che interpreta:

 

Quando ho cominciato a cantare, le dighe sono crollate uno dopo l’altra e le parole si sono riversate. La conquista della voce procura un sentimento di immortalità: l’accesso ad un paesaggio immenso: in compenso esige coraggio, pazienza, perseveranza, umiltà, e capacità d’astrazione, perché se si può disegnare un piano, non serve a niente di rappresentare il diaframma, i polmoni, la glotta, le corde vocali, i muscoli della lingua, l’armatura del palato e le ossa di risonanza del cranio.

[1]     Il vietnamita, il thaï, il giapponese, l’inglese, il tedesco e il francese.