diotimacomunità filosofica femminile

per amore del mondo Numero 3 - 2004

Presente Remoto

Andare liberamente tra sogno e realtà

 

* Inedito in italiano, questo contributo a un convegno a Barcellona del gennaio 1997 è pubblicato in spagnolo: Ir libremente entre sueño y realidad, traduzione di María-Milagros Rivera Garretas, “Acta historica et archaeolgica mediaevalia”, n. 19, Barcelona 1998, pp. 365-372.

 

 La caccia alle streghe nella storia dell’Europa è come una lezione difficile, che domanda di essere ancora ascoltata. Occorre che prestiamo attenzione al momento simbolico, ossia al farsi e disfarsi del significato degli avvenimenti per coloro che li vivono e per noi. Non dimentichiamoci di noi. Il significato delle cose non dipende interamente dalle cose stesse né dalla loro rappresentazione, e può cambiare autonomamente. In altre parole, esiste un ordine simbolico ed è a questo livello che si situa, secondo me ma non soltanto, la differenza di essere donna/uomo, che ha avuto parte nella caccia alle streghe. Ma che parte?

Julio Caro Baroja, nel suo celebre studio sul mondo delle streghe, scrive che la storia della stregoneria europea è legata ad un assunto di eccezionale importanza per l’uomo, che è “il modo in cui si fissano i confini fra la realtà esterna e il mondo delle rappresentazioni e dei desideri”.[1] Ecco un’importante questione di ordine simbolico. La caccia alle streghe comincia, in effetti, con un collasso di certi confini tra fantasia e realtà: dalla repressione della credenza nei voli notturni delle streghe e altre credenze simili, nel Medioevo, si passa, a cominciare dal sec. XIV-XV, a perseguitare legalmente donne e uomini, più donne che uomini, accusate di fantastici delitti che prima le autorità costituite tendevano a giudicare fantasie ingannevoli ispirate dal maligno, come recitava il venerando Canon Episcopi:hec omnino falsa esse, et non a divino sed a maligno spiritu talia fantasmata mentibus fidelium irrogari”.[2] Tutta la caccia alle streghe può essere riguardata come la catastrofica perdita di un confine tra fantasia e realtà, e come impegno, di singoli e della collettività, per ricostituirne un altro. O, detto più semplicemente, come un cambiamento di ordine simbolico.

Gli autori del famigerato Malleus Maleficarum si sono preoccupati di spiegare il moderno sconvolgimento da loro portato nella dottrina autorevolmente espressa dal Canon Episcopi. Lo hanno fatto con un argomento molto semplice: le seguaci del gioco di Diana di cui si parlava nel Canon Episcopi, era un caso del tutto diverso dalle streghe moderne. Quello che sostengono Institoris (von Krämer) e Sprenger, a questo proposito, non sta in piedi, essendo contraddetto dalla continuità fra le credenze messe sotto accusa nel Canon Episcopi e i comportamenti attribuiti alle cosiddette streghe moderne.

Questa mia confutazione dell’argomento di Institoris e Sprenger suona patetica: a chi, a che cosa può servire ormai? E sarebbe mai servita a qualcuna, a qualcosa? Serve – rispondo – a evidenziare che i due autori, se erano in buona fede, come dobbiamo pensare, furono tratti in inganno non da un cambiamento esterno al loro mondo e alla loro cultura. Il cambiamento era nella loro mente e nella loro cultura, la stessa delle classi dirigenti. E riguardava, secondo l’indicazione del Baroja, un confine tra fantasia e realtà, che andava cedendo, per ricostituirsi in altri termini con un travaglio durato secoli.

 

 

Nel formulare il tema del nostro convegno, María-Milagros Rivera ha messo in rapporto fra loro, rapporto problematico, da una parte il movimento religioso femminile del sec. XIII, che ci ha dato capolavori come le poesie di Hadewijch d’Anversa, come Lo specchio delle anime semplici di Margherita Porete, e dall’altra la caccia alle streghe. L’accostamento, strano e insolito nella storiografia, è però sensato ed, anzi, illuminante. Prima di esporre quello che ho pensato in proposito, vorrei segnalare che un accostamento simile, con tutt’altro significato, fu fatto anche nella realtà storica. Nel 1300, a Milano, l’Inquisizione processò la congregazione della beghina Guglielma Boema (morta del 1281) che aveva portato nella città idee e pratiche della mistica del Nord. Fra le molte domande che l’inquisitore pose alla capa della congregazione, suor Maifreda da Pirovano, alla fine dell’interrogatorio del 2 agosto, ne compare una piuttosto strana, che riguarda pratiche magiche: “Interrogata dicta soror Mayfreda si unquam proiecit aliquas crustas vel reliquias panis in ignem, respondit non”.[3] L’inquisitore non insistette. Ma nella predicazione popolare che fece seguito ai roghi del 1300 (fu bruciato anche il corpo di Guglielma, dissepolto dal cimitero dell’abbazia di Chiaravalle milanese) quella mezza idea dell’inquisitore ricompare in termini che preludono alla caccia alle streghe: Guglielmina (così si chiamava e così ancor oggi sopravvive nel folklore milanese) venne presentata come una donna fintamente religiosa e santa, in realtà dedita alla lussuria, che aveva un locale sotterraneo (una “sinagoga”) dove, di notte, si riunivano fanciulle, maritate e vedove per darsi, insieme a uomini, a cerimonie religiose blasfeme seguite da orge sessuali e omicidi rituali di neonati[4]. Più di queste fantasie calunniose, che vanno, senza soluzione di continuità, dalla persecuzione delle beghine e dei begardi, alla caccia alle streghe, passando per gli ebrei, ma che fanno parte di un repertorio clericale disponibile a tutte le operazioni, colpisce la piccola domanda che l’inquisitore pose a suor Maifreda al termine dell’interrogatorio del 2 agosto 1300. Nel contesto di quell’interrogatorio come di tutto il processo, quella domanda appare incongrua e resta unica nel suo genere. Sembra quasi una libera associazione mentale nella testa dell’inquisitore, il sintomo quasi irrilevante di un cedimento che prelude ad un catastrofico disordine simbolico nella testa dei chierici.

 

Racconterò un secondo fatto che ha luogo sempre a Milano, verso la fine del Trecento, e che vede come protagonisti, di nuovo, donne e inquisitori. È un episodio, a mio giudizio, di straordinario interesse perché mostra il cedimento di quel confine tra realtà e fantasia di cui parla il Baroja, e lo mostra esattamente come accade nella testa di uomini dotati di sapere e autorità, chiamati a giudicare una trasgressione femminile: trasgressione fantasticata oppure reale? La storia di Sibilla e Pierina, le due donne che nessuno ancora chiamava streghe, equivale nondimeno all’atto di nascita della caccia alle streghe.

In questa seconda vicenda, il movimento delle mulieres religiosae del sec. XIII è assente. Ma vi compare qualcosa che appartiene ugualmente a quel movimento e alla cultura religiosa in genere, ed è la capacità di andare e venire tra fantasia e realtà facendo a meno di limiti fissi.

Il Baroja, ricordiamo, parla di un’esigenza dell’uomo di fissare quel confine. Sottolineo “uomo” e “fissare” perché penso che tale esigenza sia più dell’uomo che della donna. Penso inoltre che ciò sia a causa del differente rapporto che donna e uomo hanno con la figura materna. Nella sfera religiosa, nel rapporto con Dio, la differente relazione femminile con la madre può tradursi in un’intimità più fiduciosa, in un desiderio senza oggetto, in un più puro godimento, come ci fa vedere la grande letteratura mistica del sec. XIII. Ma ce lo fa vedere, a modo suo, anche il singolare mondo religioso di Sibilla e Pierina.

 

Seguendo il racconto che fanno agli inquisitori[5], Sibilla e Pierina appartenevano ad una misteriosa società capeggiata da una signora, Madonna Oriente, società che esse frequentavano una volta alla settimana, nella notte tra giovedì e venerdì, e formata da donne e uomini, in parte morti e in parte vivi. Quando qualcuna voleva passare dai vivi ai morti, doveva trovare una nuova adepta che prendesse il suo posto tra i vivi; fu così che Pierina, a sedici anni, entrò nella compagnia di Madonna Oriente, per rimpiazzare una sua zia. Il numero dei vivi restava così costante, mentre andava crescendo quello dei morti. Alle riunioni notturne si recavano anche gli animali, una coppia per ogni specie (come nell’arca di Noè), e se uno soltanto fosse mancato, “tutto il mondo ne sarebbe distrutto”. Non c’erano però gli asini, perché associati alla religione cristiana. Madonna Oriente era signora del suo mondo come Gesù Cristo lo è del nostro. Davanti a lei non si doveva nominare Dio e il giovedì sera, prima del convegno notturno, si doveva andare a letto senza aver fatto il segno della croce. Giunte in sua presenza, tutte le facevano la riverenza ed ella rispondeva: “Che voi siate le benvenute, figlie mie”. Era sapiente e potente, conosceva i segreti delle erbe, conosceva le cose nascoste e quelle future, rispondeva alle domande su malattie, furti e malefizi, e su ogni altra questione, di modo che le sue seguaci potessero fare altrettanto in questo nostro mondo. Sibilla e Pierina assicurarono l’inquisitore che la Signora a loro aveva sempre detto il vero. Non pensavano che fosse peccato frequentarla e perciò non ne avevano mai parlato con il confessore, ma ammisero che la Signora chiedeva il segreto sulle loro riunioni notturne. Lì si facevano dei pranzi di carne; ossa e pelle delle bestie uccise venivano poi rimesse insieme e Madonna Oriente, toccandole con una bacchetta, le risuscitava, ma non erano più atte al lavoro. La compagnia andava inoltre per le case dei cristiani immersi nel sonno, dove si mangiava e beveva, e quando le trovavano pulite e in ordine, la Signora del gioco (Domina ludi è un altro dei suoi nomi) lasciava la sua benedizione alla casa.

 

Sibilla Zanni e Pierina Bugatis morirono sul rogo in piazza Sant’Eustorgio nell’estate del 1390, con sentenza del Podestà di Milano cui erano state consegnate dall’Inquisizione che le aveva giudicate eretiche relapse, recidive. Il Podestà motiva la sua sentenza riportando pari pari la sentenza dell’inquisitore frate Beltramino, il quale dimostra la recidiva riportando pari pari la sentenza di un analogo processo fatto nel 1384 e condotto da un altro inquisitore, frate Ruggero.

È in queste breve arco di tempo ed in questo cambio d’inquisitori che assistiamo a quel cedimento dell’antico confine tra fantasia e realtà da cui ebbe inizio la caccia alle streghe. Il primo inquisitore condanna le due donne per aver creduto in Madonna Oriente: “credidisti… credidisti…”, ripete frate Ruggero nella sentenza del 1384, rivolgendosi a Sibilla, mentre frate Beltramino, sei anni dopo, le condanna come relapse non per aver continuato a credere, come sarebbe stato logico, ma per aver realmente frequentato il “gioco” di Madonna Oriente.

È un cambiamento di ordine simbolico di quelli cui è raro assistere così direttamente e la cosa che più impressiona è rendersi conto come tutto accada in maniera impercettibile; è evidente, infatti, che le due furono condannate come relapse da un inquisitore nella cui testa il confine segnato dal Canon Episcopi si era semplicemente dileguato, come nebbia al sole… Ma che sole sarebbe? Io penso che si tratti nientemeno che della nascente civiltà moderna. Dalla lotta per affermare la fede nel vero Dio (inteso non fideisticamente ma come garante del senso della realtà) contro gli inganni dello spirito maligno (equiparato al delirio mentale), che era la posizione della Chiesa medievale[6], si passa alla repressione realistica di certe credenze, realisticamente intese. Questo tremendo collasso dell’ordine simbolico, non è accompagnato, negli interessati, da clamorosi dilemmi – del tipo: è realtà o fantasia? – come noi ci aspetteremmo. Ma ce l’aspettiamo a torto, poiché, in effetti, l’ordine simbolico, per sua natura, ci precede sempre nella consapevolezza e nella rappresentazione. Il dilemma “è fantasia o realtà?” si presenterà solo in seconda battuta e accompagnerà, nella testa dei responsabili, l’uscita dalla stregomania, portandoli a fissare nuovi confini tra fantasia e realtà. Vale la pena di ricordare che il loro travaglio si risolverà distribuendo la responsabilità dell’inganno, in parti pressoché uguali, fra l’ignoranza (o il fanatismo) dei giudici, e la debolezza mentale delle loro vittime, debolezza associata all’anatomia femminile[7]. (Mi riferisco, chiaramente, alla storia dell’isteria femminile.)

Quanto alle protagoniste di questa storia – sto pensando a Pierina e Sibilla – è chiaro che non erano in condizione di opporre una resistenza valida alla deriva mentale dei loro giudici. Non perché ignoranti o impotenti, secondo lo stereotipo del vittimismo femminile, ma perché indifferenti ed estranee al problema. Nella loro cultura, infatti, c’era una frontiera tra sogno e realtà, sì, ma non era rigida e veniva anzi attraversata, con alcune opportune mediazioni, in un senso e nell’altro. I convegni notturni con Madonna Oriente, si capisce che sono fatti della stoffa del sogno. Si capisce, d’altra parte, che Sibilla e Pierina praticavano la divinazione, forse come un mestiere, ed erano, molto probabilmente, due medichesse. Le loro esistenze si svolgevano così su due scene, una vissuta in sogno e l’altra fatta di vita ordinaria. Fra le due scene c’era alternanza, simile a quella fra la notte e il giorno (che, nelle culture premoderne, si alternano molto più drammaticamente che per noi), ma c’erano anche scambi di vario tipo, come abbiamo visto. Uno è la cura domestica, compito diurno delle donne e, al tempo stesso, criterio di valore nel mondo di Madonna Oriente. Un altro potrebbe essere adombrato nella regola del farsi sostituire prima di morire, che sembra rispecchiare una preoccupazione di equilibrio demografico. Un canale forte fra i due mondi era la scienza divinatoria e medica delle seguaci di Madonna Oriente, scienza che esse esercitavano in questo mondo ma che trovava il suo fondamento nell’altro.

Ci sarebbe molto da indagare sull’affascinante mitologia che traspare nel racconto di queste due donne. E molto, in effetti, si è indagato a partire da episodi analoghi, da parte di studiosi come il Baroja o come Carlo Ginzburg[8] . Ma io trovo d’interesse notevole, perfino maggiore, il fatto in sé e per sé, come si presenta nel resoconto del processo. Della caccia alle streghe si è messo a fuoco la cultura, contradditoria ma progressiva, delle classi dominanti, o quella, affascinante ma destinata a scomparire, delle classi popolari, ed il loro impari confronto. Se però, dagli studi dedicati alla cultura delle “streghe”, passiamo a considerare i racconti di Sibilla e Pierina, ci accorgiamo che c’è qualcosa di cui, in quegli studi, non si rende conto, ed è il fatto che le due donne non si riducevano ad essere le portatrici di una cultura precristiana sopravvissuta a livello popolare. Esse infatti testimoniano di una mediazione in atto fra questa cultura e quella cristiana dominante, ottenuta con una combinazione nuova e praticabile che si reggeva, come abbiamo visto, su un fine dosaggio di spartizioni (un giorno alla settimana), di alternanze (giorno/notte, ecc.) e di reciproche esclusioni, le quali, lungi dall’escludere ogni scambio, ne ammettevano alcuni altamente significativi.

Questa osservazione non è trascurabile per la nostra comprensione della storia europea della caccia alle streghe. Senza scomodare l’etnografia e il folklore, io posso attestare che la combinazione testimoniata da Sibilla e Pierina non finì con loro né con la caccia alle streghe, è durata infatti almeno fino al tempo di mia madre: mia madre era una buona cattolica, ma coltivava – un po’ insieme, un po’ a parte e un po’ contro – una più antica “religione delle fate” nella quale lei era, per i suoi figli bambini, messaggera e mediatrice di un mondo invisibile dal quale venivano i doni della befana, le gentilezze delle fate, le minacce delle streghe e i sogni.

Che cosa voglio dire? Semplicemente, che la caccia alle streghe non è riducibile ad una crisi di crescenza della società europea nel passaggio all’età moderna. Non lo è perché aveva delle poste in gioco che sono ancora sospese. Noi possiamo vedere, certo, che la caccia alle streghe accompagnò una svolta della nostra civiltà, svolta marcata da un’accresciuta intolleranza verso le oscillazioni libere tra fantasia e realtà, e che questa intolleranza può considerarsi il risvolto negativo di fenomeni come la nascita dell’economia capitalistica, della fisica matematica, dello Stato di diritto: quelli che si chiamano i progressi della modernità.

Ma l’opposizione fra moderno e premoderno è piuttosto nominalistica, oltre che propagandistica. Non si riferisce, cioè, alla sostanza delle cose. La sostanza delle cose riguardava e continua a riguardare il regime della mediazione, da cui dipendono il nostro senso della realtà ed il confine con la fantasia – confine che, forse occorre ricordare, non si stabilisce individualmente né naturalmente, ma storicamente e comunemente, come il significato delle parole, né più né meno, con una parte ineliminabile di arbitrio e di gioco. Mediazione tra sè e sè, tra sè e la realtà: quanto dev’essere fissata, istituita, codificata, controllabile? quanto può essere fluttuante, contestuale, inventata in prima persona e incontrollabile?

La mia tesi è che, per capire la caccia alle streghe, bisogna tener conto che, alle soglie della modernità, si aprì un conflitto, oltre che culturale e sociale, anche simbolico (e come tale interno a noi e permanente) fra ciò che noi sappiamo esser vero in forza di una mediazione vivente, e ciò che ci risulta esser vero in forza di una mediazione codificata (con i dogmi religiosi, con il credo scientifico, con il diritto…). In questo conflitto le donne si presentarono come portatrici di una superiore capacità di praticare la mediazione vivente, dovuta al loro rapporto abissalmente più intimo con il corpo della madre, un rapporto non gravato dal tabù del contatto. Ma questo di più femminile, antichissima risorsa della nostra cultura religiosa e popolare, fu visto come una minaccia all’ordine che si andava costituendo, fatto di mediazioni più complesse e potenti (o, semplicemente, più macchinose e pretenziose). La mia tesi arriva così a dire che la caccia alle streghe accompagnò i progressi della modernità in quanto questi si scontrarono con una delle risorse sorgive della civiltà, la relazione della donna con la madre, risorsa che non autorizzava quei progressi o una parte di essi. Trovo perciò giusto aver accostato, da parte di Maria-Milagros Rivera, la caccia alle streghe alla teologia mistica del sec. XIII, che aveva al suo centro l’idea e la pratica di una relazione immediata (“sine medio”) con Dio, alla quale si associò, significativamente, la pratica di una scrittura in lingua materna.

 

  1. s.

Sia chiaro, c’era misconoscimento della relazione femminile con la madre anche nella posizione tradizionale espressa dal Canon Episcopi. Ma il conflitto lì messo in scena era fra Dio, custode del senso della realtà, e Satana, che lo faceva perdere. Nella moderna caccia alle streghe, Dio ha perduto il suo primato simbolico e il suo posto, prima di essere preso dalla cultura scientifica e dall’ordinamento statuale, venne occupato dai giudici e dai teorici della caccia alle streghe, fra i quali ultimi vale la pena di ricordare l’autore della Démonomanie des sorciers, Jean Bodin (1529-1596) e l’autore del dialogo Strix, Gio. Francesco Pico della Mirandola (1470-1533). È un semplice pro-memoria, per la genealogia (maschile) della nostra fede nella scienza e della nostra idolatria dell’ordine statale; per parte mia, continuo a credere nelle fate e a sfidare Dio, come la ragazza di nome Giovanna d’Arco.

 

 

 

[1]
Julio Caro BAROJA, Las brujas y su mundo, Alianza Editorial, Madrid 1966, p.85.

[2]                    “Sono cose del tutto false, fantasie istillate nelle menti dei fedeli non dallo spririto divino ma da quello maligno. ” (Decretum Magistri Gratiani, a cura di Ae. FRIEDBERG, Lipsia 1922, pp. 1030-31).

[3]
Interrogata se abbia mai gettato nel fuoco delle croste, ossia degli avanzi di pane, la suddetta suor Maifreda rispose che no (Biblioteca Ambrosiana, manoscritto A. 227 inf., p. 8; il processo della congregazione guglielmita è stato trascritto e pubblicato da Felice TOCCO nei Rendiconti della R. Accademia dei Lincei, Cl. di sc. morali, serie V, vol. VIII, Roma 1989, pp. 309-469). Cfr. Luisa MURARO, Guglielma e Maifreda. Storia di un’eresia femminista, Milano 1985, p. 73.

[4]             Cfr. “Le due leggende” nel mio Guglielma e Maifreda, cit.

[5]             Cfr. Sentenze criminali dei podestà milanesi (1385-1429) presso la Biblioteca Trivulziana di Milano (A.S.Civ.M.Cimeli, 147, fo. 51 sgg.); ho pubblicato la sentenza in appendice al mio La Signora del gioco. Episodi della caccia alle streghe, Feltrinelli, Milano 1976, dove, pp. 147-155, do di quei fatti una lettura che qui mi propongo di completare. A mio giudizio, le confessioni di Sibilla e Pierina non furono ottenute con la tortura.

[6]             Dicendo questo io non prendo posizione nell’ordine del vero/falso (e neanche del bene/male) ma nell’ordine simbolico, che è quello del senso; è in questa chiave che riconosco a un testo come il Canon Episcopi un chiaro impegno per il senso della realtà contro il delirio mentale, impegno che io, come studiosa, dichiaro apertamente di condividere, senza poter condividerne niente altro.

[7]             Questa conclusione ha funzionato in pratica, ma solo a metà; lo indica il fatto che nella nostra cultura la caccia alle streghe torni a riproporsi come un tema che non si lascia archiviare.

[8]             Carlo GINZBURG, Storia notturna. Una decifrazione del sabba, Einaudi, Torino 1989