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per amore del mondo numero 16 - 2019

Giù dallo scaffale, tra le mani. In dialogo con Wanda Tommasi: La ragione alla prova della follia

All’insegna delle compagne di viaggio

Per amore del mondo 16 (2019) ISSN 2384-8944 https://www.diotimafilosofe.it/

 

 

 

Wanda è una buona compagna di viaggio.

Una che si prepara in anticipo, prevede, vive con attenzione le esperienze, le piace condividerle insieme. E queste sono sempre occasione di una miriade di riferimenti a cose vissute, lette, pensate (ridendo ci dicevamo che più che in vacanza eravamo un seminario di Diotima in trasferta). Inoltre lei tiene resoconti, diari di viaggio, ci ripensa…

Parecchi viaggi li abbiamo fatti insieme, in alcuni in barca la ho guidata io, ma molte più volte è stata lei a farmi da guida, andando in avanscoperta.

Sto parlando naturalmente di un altro genere di viaggi. Quelli che mi ha fatto fare seguendola sulla pista della sua avventurosa scrittura.

Avventurosa, sì, perché (come scherza chi la conosce) lei è soprattutto una che “si butta avanti”, ed è questo tratto che caratterizza anche il suo instancabile viaggio di ricerca di senso, di cui abbiamo le tante corpose cartoline e guide dei suoi libri.

Ho cominciato a leggerla quando ancora ero all’università per un esame, un saggio sul soggetto in Wittgenstein, così per quanto lei abbia solo pochi anni più di me la conobbi come una più grande, una che era più avanti sulla strada. Mai avrei immaginato di averla poi come compagna di avventura.

Credo che molte come me la abbiano avuta come guida nella lettura delle tante donne il cui pensiero ha attraversato, penso lei stessa cercando di trovare guide alla sua ricerca: i suoi libri su Simone Weil, Etty Hillesum, Maria Zambrano sono imprescindibili per chi voglia leggerle con occhi di donna, così come molte avranno trovato aiuto nel districarsi nella storia della filosofia nel suo I filosofi e le donne[1].

Non sono solo libri di ottima storia della filosofia, illuminati dal taglio della differenza sessuale, ci si sente il mettersi in gioco di Wanda, una interrogazione che riesce a ridare voce per il dialogo alle filosofe, a restituircele vive.

Sono già diari di un viaggio su vie non segnate, ma in altri libri il cammino di Wanda si è via via fatto più esposto ed esplorativo: La scrittura del deserto. Malinconia e creatività femminile, Oggi è un altro giorno, Filosofia della vita quotidiana, Ciò che non dipende da me. Vulnerabilità e desiderio nel soggetto contemporaneo [2]. Con una propensione a farsi camminatrice di ripidi sentieri, di “scaranti” direbbe lei, che ha costantemente mostrato nei più veloci ma non meno arditi scritti per i tanti libri di Diotima[3].

Attraverso i suoi vari libri si riconosce un filo conduttore, uno stesso movente, si avvertono essere tutti libri che vengono da un’urgenza, quasi una pressione che pare insieme intima e personale, ma anche condivisa e attuale, spesso anche politica, nel senso che ha dato il femminismo alla politica. E per chi conosce Wanda si riconosce anche l’intrecciarsi del filo del suo discorso con la trama di un tessere comune, di relazione con altre. Viene dichiarata nell’introduzione a questo ultimo libro, dove lei riconosce un debito, una autorizzazione simbolica che viene da quel viaggio comune che è l’impresa di Diotima[4]. E nel contempo lei si richiama metodologicamente alla pratica femminista del partire da sé, anche per allontanarsi da sé e calarsi nell’esperienza di altri.

Ora, in questo La ragione alla prova della follia[5] il sentiero che Wanda percorre è davvero uno spericolato calarsi per una discesa aspra e sdrucciolevole. Le discese non sono affatto meno rischiose delle salite, e questo è proprio il caso.

Ciò che infatti il libro propone è una vera e propria discesa in una zona al liminare della luce della ragione, dove il suo sole si vela, si copre di nubi di tempesta, si oscura, per tramontare sui  territori della tenebra della ragione: la follia.

Si potrebbe ben dire una sorta di dantesca discesa all’inferno, e in effetti a guidare i passi di Wanda sono guide cui come a Virgilio è precluso di ascendere al paradiso, la cui vita è stata un purgatorio e che hanno conosciuto bene le pene infernali.

Si tratta in tutti i casi di guide che hanno brillato di grande luce, geni nella scrittura, nella filosofia, nell’arte, ma la cui vita è stata tutt’altro che solare e pienamente diurna: tutte e tutti hanno vissuto, in un modo o in un altro l’esperienza della follia.

Il primo è Jean-Jacques Rousseau, travolto negli ultimi anni della sua vita da una mania di persecuzione, che ingaggia una strenua e perdente lotta tra il raziocinio e il delirio, e che solo nelle sue Fantasticherie di un passeggiatore solitario trova conforto nel diverso linguaggio dell’estasi in rapporto con la natura.

Poi Jacob Lenz, la cui follia viene ripercorsa prima da Georg Buchner e poi da Ingeborg Bachmann.

E naturalmente Nietzsche, che si volle simbolicamente “uomo folle” e uomo tragico, per finire la sua vita in una tragica follia.

E ancora Helene von Druskowitz, la filosofa che fu rinchiusa per gran parte della sua vita in manicomio con la diagnosi di “androfobia”.

C’è poi Van Gogh, che infine si consegna alla notte da autentico cavaliere della luce.

E ultima Virginia Woolf alle prese con i propri demoni, che straordinariamente accoglie convivendoci, finché riuscì, e quasi mettendoli al lavoro: “mi ha salvata la pazzia”.

Wanda si è scelta dei compagni e delle compagne di viaggio geniali, anche se non è indagare il binomio genio-follia ciò che le interessa: giustamente lei sottolinea come non tutti i folli siano geni, né i geni tutti folli. Piuttosto le interessa “raccorciare la distanza” tra questi, convinta che solo la ragione che sa correre il rischio della follia meriti il suo nome, e che nelle esperienze di chi ha sperimentato la sofferenza mentale dandole espressione si possano trovare elementi per riconoscere qualcosa della propria comune umana sofferenza.

Sì, la sofferenza psichica è comune: in una folgorante apertura Wanda rivela che circolavano germi di pazzia nella sua famiglia, e che la riparazione del senso di vergogna con cui venivano considerati nel passato è uno dei suoi moventi. Ma sì, questa sofferenza è più comune di quanto si ammetta, e direi che nella famiglia femminista i germi di follia sono ancor più comuni, come il pane quotidiano. Ma tornerò poi su questo con una domanda.

Prima però voglio riportare un po’ Wanda, che si è così spinta oltre in questo libro, indietro sui suoi stessi passi.

Ho paragonato questa sua impresa a una discesa. Ma a ben vedere nel titolo come nel libro c’è una ambivalenza tra discesa e salita che si rispecchia nel rapporto tra ragione e follia.

Da un lato sembra esserci la spinta attiva di una ragione che si spinge fino ai limiti della follia, eroicamente, dall’altro una pressione da parte della follia che la ragione viceversa patisce, e a cui reagisce e con cui combatte o della quale tenta di farsene una ragione. Come due direzioni, attiva e passiva, uno spingersi avanti, oltre, in una sorta di ascesa, e una china più passiva, dove si patisce, uno sprofondamento. Il titolo nominando una prova consente entrambe le accezioni. Le chiederei nella discussione di parlarne.

Intanto però ho cercato di darmi delle risposte.

In effetti i testi di Wanda sono stati sempre più che una ascesa, una immersione in profondità, per poi vedere come trovare una risalita. Forse simili ad una alchemica opera al nero. Qui, leggendo questo libro, ho sentito che qualcosa è diverso, qualcosa è cambiato.

Così sono andata a rileggerla, soprattutto in quegli scritti che lei stessa nella Introduzione indica come tappe precedenti del suo percorso: La scrittura del deserto (2004) e il saggio Soglia nel libro di Diotima in Immaginazione e politica (2009)[6].

Molto tempo è passato, ma Wanda è una che fida con Maria Zambrano nell’importanza di tornare negli stessi luoghi.

 

La scrittura del deserto

 

Così scriveva in La scrittura del deserto, dedicato a esplorare il segreto legame tra malinconia e creatività femminile, convinta che “il sostare doloroso presso i momenti di aridità, di vuoto e di sofferenza che talvolta attraversano la propria vita sia più facilmente sopportabile se, anche nel patire, si conserva memoria della bellezza”[7] .

Lì il ritornare negli stessi luoghi era avvicinato a un movimento di andata e ritorno:

 

l’andare e venire, il ritornare di nuovo negli stessi luoghi fa capire che non c’è una sola via d’uscita, una sola risposta, ma che in ogni punto del percorso può aprirsi un varco in direzione del possibile. In ogni punto del percorso, una via di salvezza è costituita in realtà proprio dalla possibilità di elaborare la propria sofferenza, di offrirle parole e immagini che la traducano senza tradirla. Dare voce ai propri demoni… uno dei modi di convivere con la malinconia senza farsi travolgere, forse saranno amici e finiranno per aiutarci[8].

 

Sono parole che risuonano con questo ultimo libro, specie con il capitolo su Virginia Woolf.

Si avverte nel suono di quel tasto dedicato alla malinconia l’anticipazione di quella che sarebbe stata la tappa di percorso che Wanda ora ha compiuto.

Il capitolo cruciale diceva infatti, concludendo il libro, essere il secondo: la discesa in fondo al pozzo, dove “si affronta faccia a faccia il dolore, sfiorando la follia e vivendo fino in fondo l’esperienza del deserto”. Solo una volta calatesi lì è possibile intravedere una via di uscita: “il contatto con la pazzia insegna che occorre abbandonare ogni gerarchia, mettere fine alla contabilità del più e del meno, con cui spesso ci confrontiamo con gli altri, in modo inevitabilmente competitivo, insegna inoltre che l’accettazione dell’esistenza, colta nelle sue componenti più semplici, può restituirci il senso di quella originaria creaturalità, che le forme complesse e talvolta artificiose del nostro vivere tendono a farci dimenticare”[9] .

Esplicito e cruciale qui il riferimento al Libro del deserto di Ingeborg Bachmannn, al suo attraversamento del deserto avendo conosciuto la follia, allo sostare presso il niente che azzera i significati, per giungere al ritrovamento dell’elementarità del bisogno, essenzialità della vita, sete, fame sonno, alla creaturalità. Tutti temi destinati a ritornare nel libro che Wanda poi dedicherà alla vita quotidiana, Oggi è un altro giorno.

Wanda si era qui spinta ad un limite e aveva fatto un passo nella discesa in fondo al pozzo. Ma il registro di quel viaggio era quello dell’andata e del ritorno, e del saper sostare in una zona critica, di confine e di passaggio, la soglia.

 

Oltre la soglia

 

Soglia si intitola un intenso saggio successivo[10].

Si tratta della sottile e permeabile soglia fra normalità e follia, che ognuna e ognuno deve sempre segnare e passare da sola o solo, sì, ma che con l’affermarsi del biopotere normativo che lavora con l’interiorizzazione della norma in termini di salute/malattia, induce sempre più paura e angoscia prospettando lo stigma di una etichetta.

“La paura di deviare dalla norma e l’angoscia che deriva dallo sconfinamento nei territori del disagio psichico conferiscono un significato politico particolare proprio all’oltrepassamento della soglia che separa la normalità dalla follia: dire che si può attraversare questa soglia, andare e ritornare senza per questo ricadere sotto un’etichetta che separi definitivamente dagli altri “normali”, significa infatti mettere in discussione le frontiere interne alla società così come agli individui, e opporsi al sacrificio di quella parte di sé e del sociale che non accetta le soluzioni normative.  Il passaggio della soglia, oltre a rappresentare un pericolo, può costituire infatti l’occasione di un contatto rinnovato con le radici e con i nodi del reale: con quel reale che rischia altrimenti di essere dentro di noi, così come nel corpo sociale, solo una realtà condannata e inevitabilmente sacrificata”[11].

A giudizio di Wanda nel tempo presente si è fatto più labile il confine tra reale e irreale, mentre negli anni ’70 era diverso, quindi ora ognuno è più solo nel disegnare quel confine. Inoltre, il passaggio della soglia appartiene al corpo sociale stesso, stiamo diventando un po’ tutti psicotici, come mostra ad esempio il tratto paranoico diffuso, così “rompere l’isolamento che relega i vissuti individuali di sconfinamento nel disagio psichico in una privatezza priva di parole ha un significato politico.”[12]

Come mostrano queste parole, la preoccupazione politica era forte in quel saggio, come lo era programmaticamente il taglio della differenza.  Vi si affermava come le donne siano maestre nel passaggio della soglia, capaci di viaggiare in una libertà femminile ai limiti della follia[13], vi veniva lodata la loro fluidità, la forza di non separazione tra le due dimensioni, il saper transitare tra regimi diversi. Nella prima relazione con la madre Wanda indica la matrice della fiducia nel reale, della corrispondenza fra parole e cose, una fiducia che si può incrinare nel regime vigente nelle relazioni della vita adulta, nel “palco del vivere sociale” sulla cui ribalta è difficile reggere la scena, con il rischio del deperimento di realtà e di derealizzazione.

Questo ammalarsi del senso di realtà si manifesta in una scala ascendente che ha al suo culmine il delirio, e proprio fin qui Wanda la percorre interrogandone la logica e domandandosi se persino da tale luogo estremo sia possibile immaginare una via di andata e ritorno, un possibile transito. Compagni di viaggio oltre la soglia le sono questa volta il ben noto caso di Schreber e soprattutto Malina di Ingerborg Bachmann.

Al viaggio di andata al di là della soglia segue in queste pagine un ritorno, ed è su come questo sia praticabile che Wanda concentra l’attenzione: riconosciuto il nucleo di verità cui l’esperienza del delirio dà a suo modo espressione, come si può “continuare il delirio con altri mezzi” (farmacologici o medici) sul meno desertico terreno della comune esperienza?

Quelli che qui vengono indicati sono vari: una prima via d’uscita è la scrittura, che può riprendere frammenti come miniaturizzati del discorso delirante. Una seconda possibilità è la relazione, nella quale si disegna un triangolo tra l’io, l’altro e il reale, una forma di de-centramento che Wanda riconosce agire anche nelle pratiche femministe come il partire da sè, il quale induce anche all’allontanarsi da sé e all’attenzione per l’emergere dell’impersonale.

Altre vie di salvezza sono rappresentate dall’arte e dalla religione: entrambe consentono un passaggio oltre la soglia, incanalato in modo riconosciuto e non distruttivo. Da ultimo: l’amore, imparentato alla follia nell’ambivalenza di un farmaco, veleno e cura.

Al termine di questo viaggio di andata e ritorno oltre la soglia Wanda sottolinea con forza come persino nel delirio agisca un “principio speranza”, una dimensione utopica volta a rendere il mondo migliore. Quindi l’invito a “Non dimenticare le ragioni profonde che hanno condotto fino al delirio, in rotta di collisione con un mondo che non è come noi vorremmo che fosse.”[14]

 

La prova della follia

 

Ho voluto ripercorrere i passi del lungo e accidentato itinerario che hanno portato Wanda alla tappa estrema di questo ultimo libro, dove la ragione è alla prova della follia, non certo per acrimonia filologica, ma perché è da lettrice reduce da quel viaggio sulle sue orme che mi sono apprestata a ripartire per affrontare la nuova pista da lei tracciata.

Non nascondo la mia marinara inquietudine di quando ho visto in copertina La Nave dei folli di Bosch… Stavolta rischio di andare a farmi male, ho pensato, non sarà davvero una navigazione da diporto, ma una discesa nel Maelstrom. Di mio non sento la fascinazione della follia, nessuna simpatia per il diavolo, e per quel che ho conosciuto di sofferenza psichica: la comprendo e la temo. Per il viverla dall’interno e per quel che provoca in chi la vede dall’esterno, ricordando quel che mi pare disse Rimbaud: “vai all’inferno, e gli altri avranno paura”. Ammetto, quindi, che seguire Wanda nel suo viaggio al termine della notte mi ha indotto anche un sentimento di dolore, difficile da distillare, confuso e troppo marcato da una attitudine insieme empatica e difensiva.

Non tento quindi nemmeno di venirne qui a capo, questa esperienza di viaggio richiede tempo, non è una lettura dopo la quale si chiude il libro e via…

Mi limito così a porre alcune questioni su un terreno meno sdrucciolevole e più familiare, più confortante per una ragione come la mia, fortemente immunitaria nei confronti della prova della follia.

In sostanza quel che mi colpisce, rispetto ai testi precedenti che ho ripreso, sono tre punti, intrecciati, sui quali avverto forse silenzio, forse un cambiamento:

Il primo è quello, verosimilmente inevitabile, dello sfumare del movimento dell’andata e del ritorno. Qui ci sono sì testimonianze di una fase di andata e ritorno, ma il punto cruciale è il vivere e il convivere con i demoni in una traiettoria che non ha ritorno. Il capitolo emblematico, e davvero esemplare, è quello sulla Woolf. L’autrice di To the Lighthouse è qui lei stessa davvero un faro al cui lampo intermittente guardare per fare il punto nave e orientarsi quando si sta in mare. Lo è anche per Wanda, che riesce ad entrare in sintonia con Virginia quasi come un diapason, facendone vibrare le parole e dandole una voce che quasi sembra la sua, e la nostra di lettrici, lo assicuro.  Ma certo ci sono altri capitoli e altri suoi compagni di viaggio che rifulgono di luce nera. Il Sole nero, per usare l’immagine di Kristeva, che batte alla finestra con la forza del Male e insieme della Verità.

Non è solo abbandono, resa a quel che sosteneva Samuel Beckett “La sola possibilità di rinnovamento sta nell’aprire gli occhi e vedere l’attuale sfacelo. Non è uno sfacelo che si possa capire. Io sostengo che bisogna lasciarlo entrare, perché è la verità.” Aprire quella finestra oltre la quale stava per Beckett la pur spietata luce della verità non paralizza nell’abbaglio, non toglie solo il fiato, ma pare per Wanda poter consentire anche di inspirare profondamente e prendere un diverso respiro nella vita. Con le parole di Woolf: “Mi ha salvata la pazzia”. Certo, aggiungo, qui la salvezza è più grande della vita stessa.

Il secondo punto è il nodo della differenza sessuale. In questo libro Wanda ha come guide sia donne che uomini. Ci sono segni di una differenza consapevole o meno, ma non così sottolineata come nei testi precedenti. Forse in questo passaggio estremo questa come recede rispetto a una condivisa creaturalità? O che altro? Indubbiamente la consapevolezza è sempre palese nello sguardo  di Wanda, ma questo sembra essersi fatto più simpatetico e comprensivo nei confronti delle esperienze maschili da cui sceglie di farsi accompagnare, al punto di dire “Rousseau, notre frère”. Pur riconoscendo lucidamente i tratti di una patologia che sembra la nemesi di un narcisistico mito maschile di indipendenza e autonomia.

Il terzo punto è una questione che potrei qualificare come politica, o del rapporto con il presente. Queste erano in primo piano nei testi precedenti che ho ricordato, ora lo sono meno. Le esperienze attraversate da Wanda in questo libro sono collocate in un tempo “pre-psicoanalisi” e “pre-femminismo”. Per quanto con Woolf e Druskowitz si tratti di donne che sono più che ben avvertite della differenza sessuale, essendo quasi delle “madri” del femminismo.

Vengo, quindi, ad alcune riflessioni che pongono domande in merito soprattutto a questo ultimo punto: in primo luogo: che rapporto c’è tra la ripetuta sottolineatura circa l’importanza di “avere interlocutori” e la pratica delle relazioni sulla quale ha tanto insistito il femminismo?

La vena di follia è connaturata al femminismo, la si è riconosciuta insieme come suo germe e come stigma, e il femminismo stesso si può dire sia stato una vera e propria terapia di quel che altrimenti si nominava solo come follia femminile. Molte volte il femminismo è stato visto come taumaturgico della sofferenza femminile, con speranze palingenetiche eccessive. Se il femminismo è stato una specie di cura, di analisi, non è una panacea ma è una analisi interminabile.

E resta una sofferenza femminile oltre il femminismo e dentro il femminismo, nella vita delle donne. Molte forme di negatività che hanno anche quella di un disagio psichico che si intreccia con quanto pure la rivoluzione sociale e simbolica del femminismo ha cambiato. Riconosco qui una questione attuale e dolente.

Ci sono nuove forme oggi di questa sofferenza nel rapporto fra sé e sé, con le altre donne, con gli uomini? Una sofferenza postfemminista? Una sofferenza postpatriarcale? Oggi, dopo la caduta simbolica del patriarcato e quel che si è chiamata la venuta al mondo della libertà femminile. E penso sì a quella che, come dire, sopravvive in questa situazione di “morte vivente” del nome del padre che si manifesta in nuove modalità del dominio maschile. Ma c’è anche una sofferenza specificamente legata a ciò che il femminismo e la libertà femminile hanno portato alla luce?

Pur non essendo in alcun modo “psy” credo che non sia affatto un azzardo affermare che quel che è andato storicamente e genericamente sotto il nome di follia, e per cui ora si usano tanti altri termini più precisi e fini, si intreccia strettamente e forse costitutivamente con la differenza sessuale, la sua iscrizione simbolica, e il modo in cui socialmente e culturalmente si strutturano di conseguenza le relazioni tra i sessi e nei sessi, come tra madri, padri, figlie e figli. Nei fattori determinanti, nelle manifestazioni, nella fenomenologia, nei sintomi e nelle terapie. In ciò che fa ammalare e in ciò che può curare.

Se la ragione filosofica ha raccontato una lunga storia di lotta con la follia e lo ha fatto in gran parte su una macro-trama che contrapponeva maschile e femminile, è poi stata una psicoanalisi nata dall’ascolto della sofferenza psichica femminile dell’isteria a mettere in discussione il significato di quelle definizioni dicotomiche di ragione e di follia, mettendo al centro la sessualità e la sessuazione del soggetto. Il femminismo ha poi a sua volta smascherato il pregiudizio sessuato della psicoanalisi stessa contestando l’impianto di quella narrazione e ricentrandola sulla differenza sessuale.

Wanda conosce perfettamente tutto questo, e nel libro se ne riconoscono vistosamente i segni, tuttavia questa è una questione di cui qui non si è occupata per esteso. Le chiedo se vuole dirci qualcosa in merito. In particolare: ritiene che le cose si siano riconfigurate? Vede dei segni di trasformazione?

Il femminismo ha in parte dato alle donne una possibilità di strapparsi da alcune forme di follia e di sofferenza, iscrivendole in un altro ordine simbolico. Come scrissi anni fa quando uscì il sottosopra sulla morte del patriarcato: “non scomparirò nel muro”, nella crepa del muro dell’ordine maschile paterno di cui parlava Bachmann e che assorbe Malina. Ma ciò certo non ha annullato la sofferenza e la follia. Queste hanno preso forse altre forme, non quelle vecchie, e forse ce ne sono di nuove… Ma confido, credo assieme a Wanda, che ci siano anche parole nuove con cui esprimere e combattere i demoni.

Insomma, le chiedo, a lei che con questo libro ha voluto spingersi così avanti da arrivare ad un limite dove viene meno anche la forza della parola e del senso, di tornare un po’ indietro a riguardare il percorso, a riprendere alcune delle sue domande precedenti. Sono quelle che avevo in mente quando lei mi ha presa per mano conducendomi in territori così inospitali e rischiosi, e quelle che si sono poi aggiunte nel cammino. Ci sono risposte nel libro, alcune chiare, altre sono disseminate sul sentiero come lucidi sassolini. Altre volte lei è più laconica, preferisce dare voce alle esperienze che ha scelto come compagne e guide, di donne e uomini già esposti al limite di quel che si riesce a dire.

Presumo che la natura stessa di quanto ha fatto, e dell’estremità delle esperienze cui si è accostata lasciandosi toccare la abbia portata sovente a trattenere l’intrusione della parola.

Le chiedo se, avendo qui delle interlocutrici, può dire di più. Ma forse già queste tasche piene di sassolini brillanti sono quanto di meglio una lettrice può aspettarsi di raccogliere tra le pagine di un libro.

 

 

 

[1] Wanda Tommasi, Simone Weil: segni, idoli, simboli, Franco Angeli, Milano 1993, Ead., Simone Weil. Esperienza religiosa, esperienza femminile, Liguori, Napoli 1997, e la cura di Weil, per Le grandi collane del Corriere della sera, 2014. Ead., Etty Hillesum. L’intelligenza del cuore, EMP, Padova 2002; Ead., Maria Zambrano. La Passione della figlia, Liguori, Napoli 2007; Ead, I filosofi e le donne. La differenza sessuale nella storia della filosofia, Tre lune, Mantova 2001.

[2] Wanda Tommasi, La scrittura del deserto. Malinconia e creatività femminile, Liguori, Napoli 2004; Ead., Oggi è un altro giorno, Filosofia della vita quotidiana, Liguori, Napoli 2011; Ead., Ciò che non dipende da me. Vulnerabilità e desiderio nel soggetto contemporaneo, Liguori, Napoli 2016.

[3]Impossibile mettersi a ricordarli tutti, ma almeno uno, davvero storico sì: La tentazione del neutro, nel primo libro di Diotima, Il pensiero della differenza sessuale, La tartaruga, Milano 1987.

[4] La nostra comunità filosofica femminile della quale è tra le fondatrici.

[5] Wanda Tommasi, La ragione alla prova della follia, Liguori, Napoli 2018.

[6] Diotima, Immaginazione e politica. La rischiosa vicinanza tra reale e irreale, Liguori, Napoli 2009. Il libro comprende saggi che vengono da relazioni ad un precedente Grande seminario di Diotima, ed è stato fortemente voluto e curato da Wanda.

[7] Wanda Tommasi, La scrittura del deserto, cit. p.4.

[8] La scrittura del deserto, cit., p.99.

[9] La scrittura del deserto, cit., p.97.

[10] Wanda Tommasi, Soglia, in Diotima, Immaginazione e politica, cit.

[11] Wanda Tommasi, op.cit., p.69.

[12] Wanda Tommasi, op.cit., p.70.

[13] Il riferimento era qui a Marguerite Duras di La vita materiale, quello stesso cui Wanda si richiamava nel saggio In gioco in Diotima, L’ombra della madre, Liguori, Napoli 2007.

[14] Wanda Tommasi, Soglia, cit., p 102.