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per amore del mondo Numero 4 - 2005

Visioni

 51a  Biennale d’arte di Venezia.  Riflessioni

  

Per la prima volta due donne sono le curatrici della Biennale d’arte di Venezia, la più antica e famosa tra le rassegne internazionali,  che nel 2005 ha compiuto 110 anni .

Tutti sono rimasti impressionati dalla grande quantità di artiste presenti a questo evento.

Ma quello che ha soprattutto colpito me è che le scelte e i percorsi ideati dalle curatrici  dimostrano la consapevolezza  di quanto l’arte contemporanea  sia debitrice alle pratiche  artistiche nate dal femminismo degli anni Settanta. Questo movimento ha avuto un grande impatto sulle arti visive e sulla trasformazione del concetto di arte e di artista. La ricerca delle donne ha trasformato e reso più libero il linguaggio visivo,  mettendo in discussione la tradizione, e  l’esistenza stessa  delle correnti artistiche,  prendendo in considerazione tutto quello che prima nell’arte era stato ritenuto marginale ed effimero attraverso un eclettismo vitale e spregiudicato, e leggendo in modo nuovo e diverso l’arte del passato.

Per me questa è  la chiave di lettura di tutta la Biennale.

Aprire i percorsi espositivi dei Giardini e delle Corderie dell’Arsenale con artiste che provengono dal femminismo significa riconoscere le origini della libertà creativa delle artiste di oggi.

All’inizio della  rassegna, ai Giardini, ci vengono incontro le grandi scritte di Barbara Kruger, che tappezzano e avvolgono la facciata neoclassica del padiglione italiano.

Esse aprono il “labirintico percorso” nel Padiglione Italia che la curatrice Maria de Corral ha chiamato “L’esperienza dell’arte” , e che propone  come “un luogo aperto”, una sperimentazione continua più che “un cumulo di certezze”.

Barbara Kruger, a cui è stato assegnato il premio alla carriera, è una delle prime artiste che, attiva negli Stati Uniti dagli anni ’70, usa l’arte per risvegliare le coscienze, per combattere  stereotipi sessuali e sociali, per creare cortocircuiti di energia e di pensiero. E’ un’arte che non può essere racchiusa nei tradizionali luoghi espositivi, gallerie e musei, ma da disseminare negli spazi della vita di ogni giorno. Le opere di Barbara Kruger appaiono improvvisamente per strada, sotto forma di  manifesti pubblicitari, sulla pensilina di una fermata dell’autobus, negli spazi di una metropolitana, sulla facciata di un edificio, agiscono come richiami potenti alla nostra coscienza. Sono composti da  scritte  sovrapposte a immagini preesistenti provenienti dai media  che invadono la nostra vita quotidiana. Sono  piene di energia comunicativa, create per stimolare il nostro pensiero, per toglierci dal torpore dell’abitudine. “Cerco di creare momenti di consapevolezza. Cerco di far esplodere sentimenti di esperienza vissuta”, lei dice. (Intervista con Thyrza Nichols Goodeve in Contemporanee, a cura di Emanuela de Cecco e Gianni Romano,Costa & Nolan, 2000).

 

Rosa Martinez, curatrice degli spazi dell’Arsenale  apre il percorso espositivo alle Corderie – da lei concepito come un viaggio, e che intitola “Sempre un po’ più lontano”-  con i manifesti irridenti delle Guerrilla Girls. E’ un omaggio alla lotta che questo coraggioso gruppo storico di artiste ha intrapreso esattamente vent’anni fa. Infatti le Guerrilla Girls, che si autodefiniscono “Coscienza del mondo dell’arte” sono un collettivo femminista di artiste nato a New York nel 1985,  che vuole rimanere rigorosamente anonimo. Durante le loro azioni queste artiste indossano una maschera di gomma da gorilla, giocando sull’assonanza che nella lingua inglese la parola “gorilla” ha con “guerrilla”, mentre nelle interviste assumono nomi di artiste del passato per dimostrare che le donne che fanno arte sono sempre esistite, anche se gallerie e musei sono stati monopolizzati dagli uomini. I loro grandi manifesti denunciano gli stereotipi sessisti e razzisti che hanno trasformato  il mondo dell’arte in un luogo di potere. In uno dei più noti di questi manifesti, del 1989, accanto alla riproduzione della grande odalisca di Ingres , a cui loro hanno fatto indossare la maschera da gorilla, appaiono queste frasi: “Le donne devono essere nude per entrare al Metropolitan  Museum? Meno del 3% degli artisti nella sezione d’arte moderna sono donne, ma l’83% dei nudi sono femminili.”   La loro attività  di denuncia utilizza anche molti altri canali di comunicazione, come azioni per strada, volantinaggi, lettere a curatori, galleristi, artisti, vere e proprie campagne pubblicitarie con affissioni di manifesti. Ne hanno fatti due anche per la Biennale del 2005, dove utilizzano il loro metodo di denuncia attraverso delle semplici elencazioni di dati, che rivelano la quasi assenza delle artiste in gallerie e musei veneziani. Oggi  questo può suonare come una rivendicazione un po’ ingenua (i manifesti creati per la cinquantunesima Biennale sono meno riusciti), ma quello che  trovo sempre  vitale in questo gruppo di artiste è il loro modo di porsi nei confronti dell’arte, e  che   tutte le artiste presenti in questa rassegna condividono: essere artiste significa prendere posizione e sentirsi responsabili di se stesse, dei corpi in cui viviamo e del mondo che abitiamo, significa farsi carico del proprio linguaggio.

Questa Biennale che ospita e mette a confronto diverse generazioni di artiste lo conferma.

La sala d’entrata delle Corderie è stata allestita all’insegna dell’ironia femminile. Se la vecchia generazione ha dovuto escogitare azioni di simbolica guerriglia, pur non perdendo il senso del divertimento collettivo, la nuova generazione, libera dalle rivendicazioni, può scegliere la leggerezza.

Nello stesso spazio espositivo occupato dai manifesti politici del gruppo americano, pende un enorme candeliere di un bianco abbagliante, che  la portoghese Joana Vasconcelos ha intitolato A noiva  (La sposa). L’effetto di cristallo luccicante è dato dall’involucro di cellophane di 14000 assorbenti interni. Con un forte senso dell’ironia e del gioco l’artista affronta temi  tutt’altro che leggeri, come il rapporto con il proprio corpo,  la sessualità, i luoghi comuni su ciò che è puro o non lo è, l’ipocrisia che li genera. Quello che appare è il candore di questo manufatto ironicamente sontuoso che evoca il vestito della sposa,  composto però da oggetti  destinati ad essere nascosti nella parte più intima del corpo femminile e segretamente macchiati, e che possono creare imbarazzo. La bravura di questa artista sta nel riciclare con grandissima abilità artigianale oggetti di vita quotidiana fragili e di scarto, (penso anche ad un enorme cuore in filigrana realizzato a partire da posate di plastica), creando opere dense di significati e cariche di inquietudini e nello stesso tempo leggere e giocose.

Il tema della verginità, come obbligo alla purezza imposta dall’esterno, è ripreso in modo del tutto diverso, e violentemente drammatico, in uno dei tre video della guatemalteca Regina Josè Galindo, dove l’artista si sottopone ad una operazione di imenoplastica.. Regina Josè Galindo, premiata come  migliore giovane artista, profondamente coinvolta nei costumi e le vicende politiche  del suo paese, mette in gioco il proprio corpo senza la mediazione di alcun manufatto artistico, creando azioni di resistenza e di denuncia.

Attraverso un movimento di andirivieni dal microcosmo del quotidiano agli scenari politici del mondo, molte artiste cercano  di trovare nuove strade per mettere a fuoco un sentire comune, un desiderio di vita che tenacemente rinasce nonostante tutto.

Nel video Ramallah / New York la palestinese Emily Jacir, che negli ultimi anni è vissuta in entrambe le città, tra Stati Uniti e Palestina, ci parla degli scambi personali della vita quotidiana, la comune umanità che trascende i confini ufficiali e le narrazioni dei media, come la CNN o al-Jazira, proiettando contemporaneamente scene di vita molto simili che accadono nelle due città: “L’opera è un resoconto degli spazi intermedi tra la guerra, l’esilio e la distruzione, e conserva un’altra storia, un racconto di tenacia”, scrive l’artista.

Un’altra artista palestinese, Mona Hatoum, che ha scelto invece l’esilio, trasforma gli oggetti della vita di ogni giorno in immagini  drammatiche e inquietanti,  dove mescola familiarità ed estraneità. L’opera presentata alla Biennale è una grande lama dentata, come un gigantesco coltello del pane, che segna lentamente solchi nella sabbia e poi li cancella, in un perenne movimento circolare. Una meditazione sul tempo, sui gesti della nostra vita, che ogni giorno fanno, disfano e rifanno.

“ I do, I undo, I redo”  (faccio, disfo e rifaccio), è il titolo di un’opera della grande Louise Bourgeois,  la cui esperienza artistica copre l’arco di tutto il Novecento. Ho incontrato per la prima volta la sua opera straordinaria proprio alla Biennale di Venezia del 1993,  quando le era stato dedicato il padiglione degli Stati Uniti.  Qui  presenta  due grandi spirali metalliche che pendono dal soffitto, una si avvolge su se stessa e l’altra si svolge. L’artista dice che ha voluto rappresentare con  il movimento del serrarsi   “la paura di perdere il dominio”, e con il movimento dell’espandersi quello “del cedere il dominio, della fiducia, della vita stessa”.

Il mio primo incontro con l’opera di Kimsooja, alla Biennale del 1999, è stato per me un’esperienza trasformativa.  Sotto le volte delle Corderie troneggiava un piccolo camion da trasporto sovraccarico di coloratissimi fagotti, approdato lì misteriosamente, come per incanto. Era l’anno della guerra in Kossovo, dei tristissimi approdi dei migranti sulle nostre  spiagge. Quell’opera, che traeva origine dalla cultura coreana dell’artista era dedicata ai rifugiati di quella guerra. Dava un senso di inquietudine e al tempo stesso di vitale allegria, ed era con questa vitalità che ti invitava a misurarti, come una sorta di scomoda bellezza, senza voler mascherare il dolore. L’allegria e la ricchezza dei colori e dei disegni delle stoffe dei fagotti, comunicavano con grande intensità che chi è costretto a spostarsi da un luogo ad un altro, non porta mai solo un bisogno, ma anche il suo potenziale creativo, Kimsooja ci invita a mettere in moto il nostro,  apre un varco alla nostra creatività facendoci percepire il potenziale trasformativo degli incontri.

Per  Kimsooja la funzione dell’artista è quella di connettere, di mettere in relazione, di tenere insieme culture e materiali diversi, come fa l’ago cucendo.

Le performance  documentate nella video installazione A Needle Woman (Donna-ago), presente alla Biennale di quest’anno, sono state realizzate in otto grandi città del mondo. L’artista rimane ferma, in piedi, in mezzo alla folla dei passanti, come un ago,  fende e al tempo stesso tiene insieme il brulicante tessuto umano. La vediamo di spalle, vestita di grigio, con una lunga coda di capelli neri, come una matassa di filo. Dal modo di reagire dei passanti nei confronti dell’artista capiamo le differenze delle culture, ma anche le somiglianze.

Un’opera  che non mi stancherei mai di guardare è uno dei video della serie della Donna-ago, A Needle Woman, Kitttakyushu . Si guarda dal basso un grande masso tondeggiante sotto un cielo percorso quasi impercettibilmente dal lentissimo movimento delle nuvole. Una figurina sottile, quella della donna ago, sempre vestita di grigio, con la lunga matassa di capelli neri, è sdraiata su un fianco, di spalle, tra terra e cielo. Un braccio è disteso sotto il capo, in modo da far aderire completamente il corpo alla curvatura della roccia, in un gesto di protezione amorosa, come se il corpo sottile dell’artista fosse steso sull’intero globo terrestre per proteggerlo teneramente, preservarlo e difenderlo. Il corpo ago dell’artista fa da connessione tra la leggerezza in movimento delle nuvole e la pesantezza un po’ inerme della terra,  fa da tramite, con il suo flusso di pensieri e di desideri, di sentimenti. La donna ago, nel suo gesto di mediazione amorosa, diventa anche una figura emblematica della funzione dell’artista nel nostro presente.

Sono molte le opere delle artiste che mi hanno colpito per la loro intensità e capacità visionaria, una di queste è Annette Messager, a cui è stato assegnato il Leone d’oro per la migliore  partecipazione nazionale. Questa artista ha trasformato il padiglione francese in un complesso e immaginoso viaggio nell’infanzia per indagare il rapporto con l’atto creativo e  la creazione, mettendo grandiosamente in  scena l’atto della nascita .

Mi sono limitata al percorso all’interno dei Giardini e dell’Arsenale. Sparsi per la città di Venezia ci sono  altri spazi espositivi  dedicati ad artiste molto significative di cui conosco e seguo la ricerca da anni, come Kiki Smith e Pipilotti Rist.

Penso che questa Biennale possa aiutarci molto ad  approfondire la  riflessione sul ruolo che il linguaggio visivo delle donne sta svolgendo nel nostro presente. Oggi abbiamo bisogno del pensiero visivo delle artiste, di un’arte che attraverso la libertà delle sue visioni ci aiuti a stare nel vivente, a vedere con maggiore lucidità oltre le nostre paure.