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Dell’uso dei corpi e delle parole

15 Aprile 2016

Generazione di idee (2016) https://www.diotimafilosofe.it/

Chiara Zamboni

Dell’uso dei corpi e delle parole

Il dibattito attorno alla gestazione per altri mi ha fatto riflettere su alcune questioni che ne sono dei corollari.

Primo corollario. Una piccola osservazione sul linguaggio. Sarebbe bene nelle discussioni che riguardano questioni così spinose non usare sigle, in questo caso GPA che sta per “gestazione per altri”. Le sigle cancellano la materialità dei corpi e delle anime come d’incanto con la bacchetta magica del linguaggio astratto delle iniziali. Le sigle neutralizzano la corporeità affettiva a cui le parole alludono. Sono il primo passo verso la cancellazione delle differenze. E sappiamo che di questi tempi le neutralizzazioni stanno tornando alla grande. Sarebbe meglio evitare dunque le sigle, se abbiamo a cuore di stare in rapporto con la concretezza affettiva delle questioni che ci si presentano. Senza renderle volatili ed effimere in termini più che astratti, da addetti ai lavori, che evitano l’impatto con le sensazioni, le impressioni percettive che le parole della lingua italiana suscitano.

Secondo corollario. Il malessere che la questione dell’utero in affitto provoca – e si noti che uso qui l’espressione più brutale – nasce da una scissione che attraversa la nostra cultura presa nel suo complesso. Viene da lontano, almeno dalla scienza galileiana che ha interpretato le qualità percettive delle nostre sensazioni come elementi secondari, togliendo loro valore come vie per accedere alla verità. La cultura europea sin da allora si è imbucata nella spaccatura verticale tra l’esperienza esistenziale, la nostra percezione del corpo, del mondo e degli altri da un lato e dall’altro il mondo così com’è descritto dalla ricerca scientifica che ci restituisce l’immagine di un nostro corpo oggettivato, con il quale siamo obbligate a confrontarci come qualcosa di esterno a noi.

Circoscrivo il discorso alla questione del corpo, che ci riguarda più intimamente e che le donne sentono come una radice imprescindibile. Da un lato noi abbiamo l’esperienza di essere corpo vivente e ci muoviamo nel mondo con una gamma di sensazioni di cui teniamo costantemente conto e, come una lumaca che si dimentica di avere una casa sulla schiena, ci allunghiamo e apriamo agli altri e alle cose, salvo rinchiuderci nei limiti del corpo, nel guscio, quando siamo in difficoltà. Il corpo ha un lato inconscio che è segnato dalle parole di verità che ci hanno orientato nella vita.

La medicina, quanto più progredisce sul piano tecnologico, tanto più ci rimanda l’immagine di noi come corpo oggettivo, smembrato in parti analizzate separatamente. Seno, utero, e così via. È una vecchia questione già elaborata dal femminismo che ha appoggiato la medicina narrativa proprio perché, nella consapevolezza della sconnessione tra corpo vivente e corpo-oggetto, ha visto nelle narrazioni un ponte tra medico/a e donna che racconta, puntando sulla relazione in presenza. L’inconscio può trovare espressione in questa relazione. Quello della medicina narrativa è una delle situazioni in ci si è trovato un ponte alla sconnessione.

Terzo corollario. La scissione di cui ho parlato fa comunque male. Genera una ferita, che viene rimossa sul piano personale. Una ferita che rode e lacera silenziosamente nel profondo. Tuttavia è iscritta nel simbolico e perciò possiamo affrontarla su questo piano condiviso. Il fatto è che abbiamo ritrosia a ragionarci perché è difficile trovare dei ponti, dei passaggi tra il piano della verità d’esperienza e il piano della verità scientifica-tecnologica. Risulta doloroso stare presso una contraddizione se non vediamo ponti. D’altra parte è molto peggio far finta che la scissione non ci sia.

Quarto corollario. La questione della “gestazione per altri” porta la ferita alla sua massima tensione contraddittoria e perciò provoca molto malessere. Pur essendo un’esperienza apparentemente lontana dalla mia, sento che comunque mi riguarda. Infatti una donna che genera per altri ha un rapporto quasi del tutto scisso tra corpo vivente e corpo-oggetto. Oltretutto si trova in questa separatezza non per motivi di salute, ma per motivi legati al benessere economico resi possibili dalle nuove tecnologie di riproduzione. Ho letto molte storie di donne che si offrono per la gestazione per altri. Mi ha colpito la storia di una donna statunitense che voleva con il marito mettere da parte dei soldi per comperare una casa. Ha portato avanti otto gravidanze. La cosa si è risolta alla fine in modo drammatico. È una delle narrazioni che più mi hanno fatto pensare.

Una psicoanalista francese, Piera Aulagnier, descrive il rapporto tra la madre e una figlia o un figlio in gestazione come un rapporto nel quale, già prima che ci sia stata la fecondazione, una donna pensa la figlia o il figlio a venire, lo immagina. In questo modo le/gli dedica pensiero, figure. Crea così una vera e propria culla di parole in cui viene a nascere la piccola o il piccolo. Ma alcune volte la donna non riesce a pensare questo. Allora vede solo nella gestazione la trasformazione del proprio corpo e la nuova vita risulta per lei soltanto un pezzo della propria carne. Una propaggine anonima. Nessuna culla di parole si è venuta a creare, che permetta al neonato di essere una singolarità autonoma sul piano del simbolico. Siamo di fronte solo ad un pezzo del suo corpo sentito come oggetto. Estraniato.

Che tipo di rapporto si è instaurato tra questa donna statunitense e gli otto piccoli? È riuscita a pensare ognuno come una singolarità unica, voluta e amata? Oppure è stato sentito come un pezzo del proprio corpo in trasformazione, da dare poi ad altri, per avere quei soldi necessari per un po’ di benessere? Non lo possiamo sapere. E tuttavia lei sicuramente ha vissuto questa contraddizione in modo esasperato.

Il dibattito sulla gestazione per altri ha portato ad una forte radicalità la contraddizione tra corpo vivente e corpo oggetto per via tecnologica, come alienazione di sé a sé. Per questo inquieta molto ma anche fa ragionare così tanto.

Quinto corollario. Non è solo la scienza nella sua dimensione tecnologica a creare questa alienazione. Essa si estende ad altri elementi portanti della cultura contemporanea come gli ambiti economici e i sistemi organizzativi. Poniamo attenzione al fatto, ad esempio, che in quelle che oggi vengono chiamate “aziende ospedaliere” e “aziende universitarie” il personale medico e i docenti sono chiamati “risorse umane”, nominati come una delle risorse del sistema accanto ad altre dell’azienda stessa. Questi sistemi, che dovrebbero essere finalizzati al benessere e all’attività dei soggetti, portano invece donne e uomini ad essere estraniati da se stessi in quanto risorse economiche dell’azienda. Si può vedere per analogia come nella ricerca biologica sia stata posta al centro la vita in termini neutri, mentre la vita umana risulta a questo punto solo una variabile tra le altre delle vita impersonale. Ho provato a parlare con colleghe e colleghi all’università riguardo al fatto che noi siamo nominati “risorse umane dell’azienda universitaria”. Ma quasi tutti evitano di ragionarci, affermando che si tratta solo di definizioni linguistiche, di parole inoffensive. Che la loro realtà personale è un’altra e soggettivamente viva. Direi che questa è una fortuna, e vorrei però che da lì si aprisse un conflitto con altri modi di nominare la loro realtà. Ma non vogliono fermarsi al fatto che le parole dominanti circolano e legano l’anima, hanno effetti sul corpo. Evidentemente è troppo doloroso stare presso la contraddizione che si apre, e guardarla. Ma la rimozione provoca un dolore molto maggiore, profondo e invisibile.

Sesto corollario. Günther Anders sosteneva negli anni ’50 che la scienza tecnologica si è sviluppata così velocemente che il pensiero umano in circolo con la percezione, la cultura, l’immaginazione, non è stato capace di stare in rapporto a queste trasformazioni. La velocità dei risultati scientifici è aumentata esponenzialmente da allora, ma la cultura delle donne e degli uomini si trova in affanno e non ha la capacità di pensare tali trasformazioni. Il che non significa sostituirsi agli scienziati, ma elaborare una cultura vivente, un linguaggio, una immaginazione nella quale la tecnologia trovi la propria parte, la propria collocazione, cioè venga interpretata. Interrompendo così quel piano inclinato per cui essa risulta oggi invece l’interpretante del nostro mondo condiviso, anche e soprattutto nel caso delle tecniche riproduttive della vita umana.